mercoledì 6 giugno 2007

Dissidenti di tutto il mondo unitevi, ché l'America sta con voi. Christian Rocca

New York. Chiamatemi pure “il presidente dissidente” ha detto George W. Bush pronunciando, a Praga, davanti a una platea di militanti democratici di tutto il mondo, il più potente discorso libertario della sua carriera politica, secondo soltanto al discorso inaugurale del gennaio 2005, quando ricordò a chi lo aveva appena rieletto che la missione storica dell’America è quella di cancellare la tirannia dalla faccia della terra.
L’occasione di questo “dissidenti di tutto il mondo unitevi” è stata la Conferenza internazionale su “Democracy & Security” organizzata dall’ex dissidente sovietico Natan Sharansky, autore del libro “The case for democracy” che ha influenzato la politica libertaria di Bush in medio oriente, dall’ex presidente ceco Václav Havel, protagonista della rivoluzione di velluto di Praga, e dall’ex premier spagnolo José Maria Aznar. Tenuta nascosta dai grandi giornali americani ed europei, come qualsiasi iniziativa non bellica della Casa Bianca, questa “Davos dei dissidenti” era attesa da mesi dai magazine e dai blog favorevoli alla dottrina Bush. L’idea dei promotori della Conferenza – ribadita nella dichiarazione finale che sarà approvata oggi – è il cuore stesso della dottrina Bush: esiste un legame diretto tra la promozione della democrazia e il rafforzamento della sicurezza internazionale, malgrado il caos iracheno lasci pensare altrimenti. Havel, Sharansky e Aznar hanno voluto ricordare che la connessione tra i diritti umani e la politica estera è stata fondamentale ai tempi del Processo di Helsinki, che ha posto le basi per la fine della Guerra fredda. E per ricordare quanto sia importante anche oggi – in medio oriente, come in Asia e nell’est europeo – alla Conferenza di Praga hanno invitato i principali dissidenti di questa stagione politica, provenienti da diciassette paesi, dall’Iran, dalla Siria, dalla Cina, dalla Corea del nord. C’era Mamoun Homsi, ex parlamentare siriano arrestato nel 2001 per aver chiesto al governo di rispettare i diritti umani. C’era la cinese Rebiyah Kadeer, i cui figli sono in prigione per la rappresaglia di Pechino nei confronti delle sue attività a favore dei diritti umani. C’erano l’egiziano Saad Eddin Ibrahim, il nordcoreano Cheol Hwan Kang, l’iracheno Kanan Makiya, tutta gente che Bush ha ricevuto in questi anni alla Casa Bianca, mentre le cancellerie europee chiudevano un occhio e, soprattutto, non muovevano un dito. “Ci sono molti altri dissidenti che non hanno potuto raggiungerci – ha detto Bush – perché sono stati ingiustamente incarcerati o tenuti agli arresti domiciliari. Ma io non vedo l’ora che a una conferenza di questo tipo possano partecipare il bielorusso Alexander Kozulin, la birmana Aung San Suu Kyi, il cubano Oscar Elias Biscet, il vietnamita Padre Nguyen Van Ly e l’egiziano Ayman Nour. Chiedo per loro l’immediata e incondizionata scarcerazione”. Bush ha detto, come fece Ronald Reagan negli anni Ottanta, che “agli occhi dell’America i dissidenti di oggi sono i leader democratici di domani” e ha ricordato tutte le iniziative di aiuto, naturalmente ignorate dai giornali, a loro sostegno (l’ultima è un fondo per i difensori dei diritti umani).

I passi indietro di Putin
Bush ha ricordato la battaglia di idee combattuta da Ronald Reagan, da Margaret Thatcher e da Giovanni Paolo II contro l’ideologia totalitaria comunista e quanto fu decisiva, come ricorda sempre Sharansky, per il morale e il coraggio di dissidenti come Sakharov, Walesa, Havel: “Da questa esperienza è emersa una lezione chiara: la libertà può essere ostacolata e ritardata, ma non può essere negata” e, quindi, “chi vive in una dittatura ha bisogno di sapere che non li abbiamo dimenticati. Il mio messaggio anzi è questo: non scuseremo mai i vostri oppressori e sosterremo sempre la vostra libertà”.
Bush ha ricordato i successi della transizione democratica in tutto il mondo, denunciando anche i passi indietro compiuti soprattutto dalla Russia e i molti ancora da compiere da parte della Cina, dell’Egitto, dell’Arabia Saudita e del Pakistan (“fa parte dell’avere buone relazioni anche l’abilità di parlare apertamente delle cose su cui non si è d’accordo”).
L’attacco dell’11 settembre, ha detto Bush, è la sfida di chi “minaccia la gente libera di tutto il mondo” con l’ambizione di “costruire un impero totalitario in tutte le terre islamiche e in parte dell’Europa”. Contro costoro, “l’America e i suoi alleati devono stare all’attacco con l’esercito e l’intelligence”. Ma questo “è più di un conflitto militare, è una battaglia ideologica tra due differenti idee dell’umanità”. In questa battaglia, ha concluso Bush, “le armi più potenti non sono le pallottole o le bombe, è l’appeal universale della libertà”, ma “espandere la libertà è più di un imperativo morale, è l’unico modo realistico di proteggere i nostri popoli”.

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