venerdì 6 luglio 2007

Gli interessi particolari al potere. Aurora Franceschelli

Edmund Burke, uno dei padri della rappresentanza politica moderna, sosteneva che: «Il parlamento non è un congresso di ambasciatori di opposti e ostili interessi, interessi che ciascuno deve tutelare come agente o avvocato; il parlamento è assemblea deliberante di una nazione, con un solo interesse, quello dell'intero, dove non dovrebbero essere di guida interessi e pregiudizi locali, ma il bene generale». Mentre durante il Medio Evo sussisteva il principio del «mandato imperativo», in base al quale il rappresentante non poteva derogare alle istruzioni che i propri mandanti gli trasmettevano, dopo, con l'estendersi delle assemblee, nelle quali si moltiplicavano e diversificavano le categorie che aspiravano ad essere rappresentate, si impose la tendenza a contemperare i singoli interessi frazionali, rapportandoli ad un presupposto interesse o bene generale, quello a cui si riferisce Burke. Nell'800, infatti, si impose quella rappresentanza «moderna» che poteva avere quale referente tanto la Nazione (come nella costituzione francese del 1791), quanto il popolo (come era statuito dalla costituzione giacobina del 1793); il principio del «libero mandato» si impose così come irrinunciabile perchè necessario al processo rappresentativo, legato all'espressione della volontà comune.

Oggi questo principio costituzionale sembra essere stato svuotato dalla sinistra di Governo: il principio di rappresentanza moderno, fondato sul libero mandato, secondo il quale i rappresentanti di tutto il popolo non sono vincolati da mandati o istruzioni particolari, ha subìto inesorabilmente l'onda d'urto destabilizzante dell'attuale coalizione di governo. Ora, ad essere rappresentato in Parlamento, non è l'interesse generale del Paese, ma sono indubbiamente gli interessi particolaristici di alcune componenti sociali ristrette che si configurano come cerchi concentrici chiusi, piccoli sottoinsiemi della società italiana: essi si identificano, ad esempio, con quelle parti sociali come i sindacati, che si fanno carico di rappresentare non il mondo del lavoro nel suo complesso, ma un semplice spaccato di esso. I sindacati, che in passato si prefiggevano di tutelate le masse dei lavoratori, non sono stati capaci di andar dietro ad i cambiamenti che l'economia globale ha imposto all'emisfero della regolamentazione del lavoro, anzi, addirittura hanno rifiutato questi cambiamenti. Oltre ai sindacati, che, sino ad ora hanno giocato un ruolo chiave negli indirizzi del Governo - è di ieri la notizia dell'ennesima battuta d'arresto sul tema pensioni - ad esercitare un forte potere ricattatorio sull'Esecutivo sono quei partiti della sinistra radicale che, vivendo ancora lo sdoppiamento di un ruolo che è al medesimo tempo di lotta e di governo, si sentono ancora fortemente ancorati a quelle ideologie dell'800 che si fondavano sulla politica della spesa pubblica. Purtroppo questi partiti rappresentano a mala pena il 20% del Paese, eppure condizionano la politica dell'Italia intera.

Da quando la sinistra è al governo sembra di essere tornati nel Medio Evo, quando le istituzioni rappresentative si fondavano sul mandato imperativo, in base al quale i rappresentanti (i nuncii), che facevano da mediatori presso il monarca, non potevano derogare alle istruzioni che il proprio mandante (il suddito) gli trasmetteva. La realtà politica attuale sembra assomigliare, sotto questo aspetto, a quella dei parlamenti medioevali: ora la sinistra radicale più di lotta che di governo, con il suo rapporto simbiotico con il sindacato, vincola il Governo a rispettare le sue prescrizioni. Una piccola minoranza del Paese rappresentata in Parlamento da quella componente che ambisce a diventare la «Cosa rossa» condiziona l'intero Paese. Questa è la realtà, una realtà che persino lo stesso Dini, che non accetta più i ricatti di quest'ala della sua coalizione, ha apertamente denunciato sui giornali. Infatti, a proposito della riforma delle pensioni, l'ex primo ministro ha lamentato: «Come si può accettare che il governo difenda 120.000 persone a danno di tutti gli altri?». Ed è sul nodo pensioni che ora si gioca la vera partita. Una partita che, in questo momento, viene continuamente rimandata a data da destinarsi.

La previdenza rappresenta ora il vero spartiacque: da una parte i «riformisti» dell'Unione rifiutano l'abolizione dello «scalone» perché, così riferiscono, non vi sarebbero le risorse per farlo, dall'altra i massimalisti non ci sentono e alzano le barricate. Insomma: il solito film già visto più volte, un film che, prima o poi, potrebbe essere fatale. Speriamo che non lo sia per le sorti del nostro Paese, che, come denunciato dagli organismi internazionali, si trova in una pericolosa situazione economica.

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