lunedì 6 agosto 2007

Prodi canta la "canzone popolare". Raffaele Iannuzzi

La lettera di Romano Prodi agli elettori del centrosinistra, che si può leggere sul suo sito personale (si tratta dunque di un'operazione comunicativa indirizzata a riscuotere un successo di immagine e di legittimazione politica), esprime il Prodi-pensiero e la retorica curial-leninista del presidente del Consiglio. Il Professore, infatti, prima blandisce il popolo della sinistra, quindi nega che esista una sinistra «radicale», e ciò al solo fine di legittimare prima se stesso e poi le sue scelte di governo. Cicero pro domo sua, sempre e comunque. La sinistra non è «radicale», ma «popolare», dunque è perfettamente la sinistra come la vuole il premier, tant'è vero che il suo governo ha fatto scelte appunto «popolari». Un giro di valzer retorico, con gli occhi socchiusi come quando Prodi spara progetti di ricerca della felicità attraverso la politica del suo esecutivo o come quando si trova davanti a Bush e nega l'antiamericanismo ideologico per poi avanzare la proposta di un multilateralismo ovviamente «radicale». Un mio vecchio maestro dell'Università di Pisa, Lorenzo Calabi, che si definiva «critico dell'economia politica», oggi diremmo marxista, ma lui si arrabbierebbe moltissimo, mi disse in un colloquio privato: «Quando le idee sono deboli, gli aggettivi diventano forti». Allora si dice che si sta cercando una svolta «radicale», che ci vogliono iniziative «forti» e via discorrendo. Aria fritta.

Prodi è il frutto di una crisi strutturale della Repubblica e della democrazia. Non è la soluzione, è l'epifenomeno del problema. Crisi storica e strutturale: aggettivi meno forti della realtà. La realtà è che il presidente del Consiglio spaccia per scelte «popolari» tutto ciò che sta mandando gambe all'aria gli assetti socio-economici di questo Paese. A questo vuoto politico e di governo subentra una duplice azione, ormai simultanea: le piazze e le banche. La lettera in questione non digerisce il mantra della «mobilitazione» e forse Padellaro ha ragione a sostenere, come ha fatto a Sky Tg24, che le manifestazioni ci saranno, sì, ma non saranno contro e non saranno per il governo: saranno un «segnale». Altro sostantivo mellifluo e privo di qualsiasi significato politico. Ma tanto basta per riaprire la porta alle trattative con la sinistra anti-popolare che si definisce «radicale».

Il Pd, avendo come presidente Prodi, sta giocando al ribasso. I teodem non ci sono più, i cattolici democratici sono la fronda che guarda all'Udc, Pezzotta è in rivolta, Rutelli è ostaggio della sua posizione governativa, Veltroni raccoglie consensi ma non ha forza politica, Fassino e D'Alema sono sputtanati fino al midollo: dov'è la novità di questo nascituro frutto di due sconfitte, della sinistra sedicente «riformista» e dei cattolici democratici? Il futuro viene da un'altra area politica, quella delle moltitudini e delle contaminazioni, come hanno fatto rilevare prima Bertinotti e poi Ferrero; e l'area della sinistra antagonista è oggi al 16%: non ha interesse a governare, vuole accelerare la crisi del sistema socio-economico perché attraverso essa guadagna consensi elettorali e potere di interdizione nell'area governativa. Del resto, Prodi nasce per produrre caos e crisi. Gli indicatori economici erano buoni prima che egli prendesse possesso di Palazzo Chigi; oggi siamo alla frutta, con l'aggiunta della dispersione del tesoretto secondo la criteriologia demagogica e alla fine anti-popolare di Rifondazione e dei Comunisti Italiani.

Lenin+Dossetti=Prodi. Se non esistesse la sinistra anti-popolare e non più marxista, Prodi dovrebbe inventarla. Ragion per cui il Pd, impiccandosi a questo governo, nasce già politicamente decurtato e strategicamente handicappato. Questa crisi giova a Prodi ed ai neocomunisti, con il filtro sempre aperto verso i movimenti. Il primo protesta ma dura; i secondi crescono e protestano. Creare la crisi per trarne vantaggio è Lenin allo stato puro. Il leninismo sopravvive a se stesso e fa maturare oggi una Repubblica non più parlamentare e legata a doppio filo, da un lato, ad un'élite non eletta dal popolo, i banchieri di riferimento del governo (che stanno snobbando il Pd), dall'altro alle piazze, che ricattano sia il governo che il Paese. I sindacati sono i convitati di pietra di questa Repubblica bancario-antagonistica. Il Parlamento è un'aula sorda e grigia; la crisi avanza e la politica si scioglie come neve al sole.

Gli assetti strategici possono cambiare solo se l'opposizione metterà sul piatto una forza economico-finanziaria rilevante e una federazione di partiti flessibile e bilanciata a seconda dei rapporti di forza sui territori. Con il primato dei contenuti, non della chiacchiera sul «must» di turno: Partito della Libertà o altro. Il «mantra della mobilitazione» appartiene alla sinistra antagonista, a noi oggi dovrebbe appartenere la cifra, tutta politica, della lotta sociale. Così si valorizza, a mio avviso, l'intuizione berlusconiana del soggetto politico unitario che cresce dal basso.

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