venerdì 20 giugno 2008

Addio Pd, grazie a te ho lasciato la politica. Peppino Caldarola

Torno all’Assemblea del Pd, per l’ultima volta. L’ultima volta da giornalista-delegato. La prossima mi farò fare il "passi-stampa". Non mi batte il cuore, anche se a questo partito devo molto. Grazie al Pd ho lasciato la politica. Non sono solo, ma provo una tranquilla ebbrezza a ritrovarmi, come a sedici anni, un apolide di sinistra. Ci sono quelli che si sono innamorati del Pd prima che ci fosse. E quelli che se lo sono fatti bastare quando hanno capito che ci sarebbe stato comunque. Io l’ho combattuto, poi ho creduto di trovarmi di fronte a un’altra cosa e ho detto «vengo anch’io». Quel che c’era prima del Pd l’ho raccontato tante volte, anche in presa diretta, su questo giornale. Per tre mesi di follie ho fatto più autocritiche io di un trockista nel Pcus.

E andata pressappoco così. Una sinistra che non voleva più essere sinistra si fa soggiogare dal fascino del grande partito all’americana che avrebbe dovuto far fare le acque agli ex-qualcosa. Una sorta di Baden Baden politico per redditieri impoveriti venuti alla stazione termale a sperperare gli ultimi denari e per ex combattenti provati da tante battaglie in cerca di riposo e belle compagnie. Aria triste e futile. Il partito di prima, i Ds, a cui tanti, ma non tutti i democrats, appartenevano, non lo amava nessuno.

Era il figlio della colpa. Pargolo secondogenito del grande partito comunista, frutto del capriccio di D’Alema, transitorio per definizione fino a diventarlo per destino quando lo prese in mano Fassino. Macaluso direbbe un partito del ni. Nato male, cresciuto peggio, destinato a morire.

Il Pd sembrava anche agli ex democristiani l’approdo obbligato e indesiderato. Mentre i cattolici scappavano a destra dietro il pifferaio Ruini, gli ex popolari, tornati democristiani d’antan visto che c’erano da spartire posti, immergendosi nel Pd pensavano di avere gioco facile con quei comunisti sconvolti dai sensi di colpa e dalle abiure. Al Pd credevano solo Prodi e Veltroni. Prodi credeva a una cosa che ha chiamato Pd ma era una maionese impazzita. Un Ulivo più grande, un partito unico "ma anche" un’Unione con i neo comunisti e i Verdi da combattimento. Insomma, con buona pace di Parisi, il Pd di Prodi era Pd solo perché c’era Prodi. Sotto il vestito niente.

Il Pd era il Pd solo con Veltroni. L’ex direttore de l’Unità che aveva pubblicato e commentato Kennedy prima di imparare l’inglese è stato l’unico vero sostenitore del Pd- doc. Dicesi Pd-doc nella improvvisata traduzione italiana, il partito che non è di sinistra ma neppure di destra, che è compassionevole con i morti di fame ma severo con i rom e i rumeni-romani, liberista in economia e statalista in Rai, plebiscitario, liquido quanto basta a sciogliere D’Alema, pigliatutto fino ad attrarre Folena e Nicola Rossi. Un partito di buoni spietati. Fratricidio e opere di bene. Ci fu chi vide che la maionese impazziva e chi no (io no). Nacque il Pd.

La prima assemblea costituente a Milano fu un casino ben organizzato. Delegati eletti nel giorno del plebiscito per Veltroni. Mi catapultarono ad Anzio. «Prenderemo scarsi mille voti», mi disse il segretario di sezione della zona. Ne prendemmo il doppio. Entusiasmo, nuovismo a go-go, sembrava il ‘68, verso la fine, quando le assemblee erano ancora affollate ma dentro si organizzavano partiti, partitini, gruppi rigorosamente gerarchizzati.

Veltroni nomina a tutto spiano. Tutti ebbero un incarico o la promessa di un ruolo. A mano a mano che la partecipazione politica si restringeva, che i vecchi elefanti organizzavano il branco superstite per resistere alla polvere sollevata da mandrie di zebre senza guida, centinaia di persone si potevano mettere all’occhiello un grado o un’onorificenza.

Il partito all’americana in Italia si fa così. Partito fai-da-te, partito senza sindacato alle spalle, senza lobby a proteggerlo, tutto coca-cola e rock and roll. Un partito molto radical ma benevolente verso Berlusconi. Un partito talmente presuntuoso da mandare al diavolo tutta la sinistra possibile. Un partito che agli operai e contadini sostituisce magistrati e cancellieri. Un nuovo blocco storico.

Poi il gioco si rompe. Prodi se ne va. Il Cavaliere si scoccia di aspettare Walter e se ne va anche lui. Al voto, al voto. Tutti a dire, vedrete cosa combinerà Walter con le liste, intellettuali famosi, registi da Oscar, scrittori da centomila copie. Invece del trionfale valzer viennese, braccia a mezza altezza per il cha-cha-cha della segretaria. Si perde alla grande. Si riperde a Roma. Si straperde in Sicilia. Non succede niente. Forse, si sente dire, non è neppure vero che abbiamo perso. Così tutti tornano a casa. Quella grande non c’è più. Restano quelle due-tre camere vista mare a Torvaianica. Io vado in montagna, da solo. (il Riformista)

3 commenti:

Anonimo ha detto...

Bello quest'articolo sul partito democratico, bello e veritiero quanto quello descritto da un esponente di Forza Italia (che ha voluto mantenere l'anonimato), dopo l'ultima riunione esecutiva di Forza Italia:"...fu semplicemente allucinante ,dopo un ora di monologo-discorso del Capo, il medesimo disse: "se qualcuno ha qualcosa da dire, migliorie da proporre o altro ,ha la parola"
Nessuno aprì bocca,ma non perchè non avessero nulla da dire, erano semplicemente terrorizzati di dire qualcosa che avrebbe potuto non andare a genio a Berlusconi, quella fu l'ultima volta che mi presentai, poco dopo lasciai l'incarico e abbandonai la politica.

maurom ha detto...

Meno male che Silvio c'è.

Anonimo ha detto...

ciao peppino!!