mercoledì 17 settembre 2008

E adesso gli Stati Uniti da cicale diventino formiche. Giorgio Arfaras

Gli Stati Uniti importano più di quanto esportino. Hanno quindi dei disavanzi commerciali con l’estero. Se i cambi fossero fluttuanti, il dollaro cadrebbe fino a far diventare le esportazioni statunitensi competitive e le importazioni care. A quel punto il disavanzo si ridurrebbe, fino a scomparire. Invece, i Paesi industriali asiatici tengono il cambio col dollaro fisso (o semifisso), perché le loro banche centrali comprano attività finanziarie in dollari per evitare che questo si deprezzi. Lo fanno per continuare a crescere esportando; ossia crescere attraverso il settore esportatore, che, diventando più efficiente, modernizza le loro economie. I disavanzi statunitensi si trasformano così in crediti dei Paesi emergenti sotto forma di titoli di Stato americani, o titoli assimilabili, quelli delle agenzie, delle società che emettono obbligazioni a fronte dei mutui ipotecari, come Fannie Mae e Freddie Mac. Gli Stati Uniti hanno una quota crescente delle proprie attività finanziarie detenute dall’estero. E siamo al punto. L’estero che detiene una gran quantità di attività finanziarie statunitensi è composto dai Paesi asiatici industriali e dai Paesi petroliferi. Questi Paesi sono delle autocrazie. Gli Stati Uniti sono indebitati con le autocrazie. Segue, più precisamente, che gli Stati Uniti sono indebitati non con il settore privato dei Paesi democratici, ma con il settore pubblico dei Paesi autocratici.

Questo fatto, che possiamo etichettare come geopolitico, non è grave fino a quando è limitato, ossia fin quando la quota di attività detenuta da questi paesi è modesta. Diventa un problema quando la quota detenuta è notevole, come è oggi, più di un terzo del debito pubblico, circa un quinto del debito delle agenzie. Non solo la loro quota è notevole, ma questa quota è crescente, perché i disavanzi commerciali persistenti alimentano la crescita del debito con l’estero. Per capire di che si tratta, si torni indietro di circa dieci anni. I Paesi asiatici, la Corea, la Tailandia, l’Indonesia per esempio, ma non il Giappone la Cina, avevano un debito estero crescente. Ci fu una crisi del debito, ossia i capitali furono ritirati e le monete crollarono. La crisi esplose perché il rendimento atteso negli anni a venire sugli investimenti finanziari e reali in questi Paesi era giudicato inferiore al costo del debito. Questi Paesi finirono in una crisi grave, ma essi erano troppo piccoli per mettere in difficoltà l’economia mondiale. Una crisi degli Stati Uniti metterebbe in crisi tutti. Dunque il risanamento brutale dei conti esteri statunitensi è un evento, come si dice, sistemico. Per brutale s’intende che non sono più comprate le obbligazioni, i rendimenti salgono, il costo del denaro sale, il credito al consumo si riduce, e la Borsa crolla. Infine, il dollaro crolla. Insomma, la crisi asiatica o russa del 1997 e 1998. Troppo grande il dramma perché possa accadere, si direbbe speranzosi.

Il salvataggio di Fannie e Freddie ha avuto, fra le molte motivazioni, quella di sostenere il prezzo delle loro obbligazioni, detenute dall’estero. Se questo fosse incorso in perdite, avrebbe potuto minacciare gli Stati Uniti sul fronte dei titoli di Stato: “se mi fate perdere, cari statunitensi, ne compro di meno”. Va detto che la minaccia è reciproca: “se vado in crisi, cari asiatici, esportate meno”. Abbiamo insomma a che fare con un sistema che ricorda quello della Guerra Fredda, dove al posto dei missili si hanno i legami finanziari. La Guerra Fredda finì perché uno dei due contendenti “gettò la spugna”. Oggi non si vede chi possa gettare la spugna. Immaginiamo prima che tutto continui. Le autocrazie possono ridurre gli acquisti di obbligazioni per comprare azioni. Possono comprare, solo spostando una quota modesta dei propri proventi, un controvalore di azioni statunitensi pari agli acquisti di azioni statunitensi di tutto il settore estero privato nel 2007, oltre duecento miliardi di dollari. Trovarsi ogni anno con almeno un 1% della Borsa comprata dai cinesi, farebbe innervosire gli statunitensi.

Qualcuno, un broker garrulo, all’inizio affermerebbe che in questo modo si sostengono i prezzi, e che è un bene, ma dopo, persino lui, vedrebbe l’implicazione politica. Che quote crescenti del settore privato di una democrazia finiscano poco alla volta nel settore pubblico delle autocrazie, non è proprio una cosa innocente. Immaginiamo ora che gli Stati Uniti, esportando di più ed importando meno, ossia riducendo per qualche anno la crescita del proprio tenore di vita, lentamente finiscano col ridurre la dipendenza dall’estero. Questo sarebbe un bene. “Al margine” gli Stati Uniti dipenderebbero meno dai Paesi autocratici. L’uscita morbida dalla nuova guerra fredda è possibile, se gli Stati Uniti diventano una formica, dopo essere stati una cicala. Qualcuno in campagna elettorale pensa di poter diventare formica pur vivendo da cicala.

L’idea di trivellare gli Stati Uniti per cercare nuovo petrolio n’è un esempio lampante. Il disavanzo commerciale statunitense è in miglioramento, al di fuori delle importazioni petrolifere. Ossia, gli Stati Uniti esportano di più ed importano di meno i beni non energetici. Dunque se si taglia una parte del petrolio importato, grazie al petrolio scoperto trivellando gli Stati Uniti, le cose possono migliorare senza sacrifici. Tutti alla pompa a dar da bere al Suv. Peccato che le stime sul petrolio che si può trovare negli Stati Uniti diano dei numeri modesti. Gli Stati Uniti nel 2030 consumeranno 16 milioni di barili il giorno, di cui 10,8 importati, 5,6 prodotti dai vecchi pozzi, 0,2 prodotti dai nuovi pozzi. Alla pompa, il petrolio non potrà costare meno. Il motore ibrido magari prodotto dai giapponesi sul suolo americano con tanti nuovi treni sono meglio delle trivellazioni. (l'Opinione)

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