sabato 29 novembre 2008

L'Europa degli indecisi. Ernesto Galli della Loggia

Cosa si prefiggono il terrorismo islamista e le forze ad esso collegate? Quale obiettivo hanno gli attentati che dall'11 settembre insanguinano la scena mondiale? Non sono proprio domande dappoco, eppure sono domande che noi, opinione pubblica europea, sostanzialmente non ci poniamo o alle quali, se proprio dobbiamo, diamo risposte vaghe e sfuggenti. Ogni volta registriamo i fatti, li deploriamo doverosamente, ribadiamo la necessità di «tenere alta la guardia» (una delle espressioni più stupide e inconcludenti del nostro gergo politico, e proprio per questo adoperatissima), e guardiamo da un’altra parte. Non c'è dubbio che anche dopo i fatti di Mumbai sarà così. Cioè anche dopo la dimostrazione che il terrorismo islamista è ormai in grado di passare dagli attentati, sia pure in grande o in grandissimo stile tipo quello alle Torri gemelle, a vere e proprie operazioni di sbarco con conseguente attacco a interi distretti urbani. Non ci poniamo le domande perché abbiamo paura delle risposte. Di una risposta soprattutto: e cioè che il terrorismo islamista e i diversi gruppi che esso ispira mirano essenzialmente a terrorizzare «noi»; sì, noi che con tutta evidenza costituiamo il suo vero obiettivo strategico.

Va benissimo, infatti, versare il sangue di indiani, filippini, turchi, iracheni o marocchini; ma quello di cui i terroristi vanno ogni volta ansiosamente in cerca, dovunque colpiscono, è soprattutto il sangue di americani, inglesi, francesi e tedeschi; anche di italiani se capita. E di sangue ebraico naturalmente: quello sempre. Le vittime che soprattutto essi vogliono sono vittime occidentali: «crociati» e «sionisti». Non perché i terroristi siano belve accecate dal fanatismo (lo sono, ma in un senso più complicato di ciò che si pensa di solito). Ma perché si prefiggono lucidamente un obiettivo, e pensano che ammazzarci possa aiutarli a conseguirlo: l'obiettivo di ridurre via via fino a cancellarla l'area di rapporti e d'influenza politica, nonché l'insieme di legami economici, culturali e religiosi, che una storia millenaria ha stabilito tra Europa e America da un lato e il mondo afro-asiatico dall'altro. Dimostrando ai governi di Asia e Africa che basta il rifiuto di essere nemici dell'Occidente e degli Stati Uniti in particolare, ovvero basta avversare a qualunque titolo i disegni del radicalismo islamico, per attirarsi la sua spietata furia omicida. Di fronte a questo piano del terrorismo islamista noi—intendo noi europei dell'Unione, fatti salvi come al solito gli inglesi— non ne abbiamo tragicamente nessuno. Gli Usa, infatti, con Bush una via, la si giudichi come si vuole, l'hanno scelta da tempo, e vedremo adesso come la cambierà Obama. Ma è certo che gli Usa continueranno comunque a fare qualcosa. Siamo noi Europei dell’Unione, invece, che non sappiamo cosa fare. Abbiamo degli uomini sul campo ma non vediamo l'ora di ritirarli; critichiamo di continuo gli americani ma non vogliamo né sappiamo essere alternativi in alcun modo ad essi; siamo decisi a parole ma poi indecisi e divisissimi tra noi in ogni azione: sballottati qua e là dalle tempeste di una storia nella quale pensiamo sempre meno di dover avere una parte, e di poterla avere. (Corriere della Sera)

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