martedì 17 novembre 2009

Fao, fame e libertà. Davide Giacalone

Se le belle parole fossero commestibili i vertici della Fao (Food and Agricolture Organization, che fa capo all’Onu) sarebbero utili a sfamare i denutriti. Invece, capita che a Roma siano esaurite le suite negli alberghi di lusso, e cortei di macchine scortano signori con un girovita incontenibile, intenti ad occuparsi di una cosa che non conoscono: la fame. Se leggete i vari comunicati ufficiali, i messaggi di buon lavoro e gli interventi in assemblea, invece, la fame vi passa, perché ottusa da una valanga di parole uguali e rimbombanti di vuoto. Tutti per lo sviluppo, ma sostenibile, tutti per l’intervento rapido, ma pensato, tutti a definire “drammatica” la realtà e nessuno che possa sentirsi “indifferente”. Commovente, ma anche tendenzialmente inutile.
Ci sono tre aspetti che, ogni volta che si riuniscono questi tripudi del buonismo alimentare, tendono ad essere occultati. Uno politico, il secondo commerciale ed il terzo economico. Quello politico è semplice: ci sono molti popoli aiutare i quali significa aiutare i loro governanti, che non mancano di ferocia sanguinaria e bramosia furfantesca. La politica non si ferma davanti ad un bimbo che muore di fame, né quella povera vittima è rappresentata da organizzazioni burocratizzate, colme di politici trombati nel bel vecchio, grasso e satollo mondo.
L’ipocrisia di questi incontri è tale da non consentire di additare i singoli dittatori, contro i quali, del resto, non si muove alcuna protesta di piazza, riservata, invece, ai leaders del mondo democratico. Sicché ci becchiamo pure il mitico “er monnezza”, che nei panni del capo libico riunisce le nostre ragazze per spiegare loro quanto maschio possa essere il mondo degli attendati. O ascoltiamo le parole della moglie di Ahmadinejad, che non avendo trovato Biancaneve, per darle la mela, si rivolge alle altre mogli dei capi di stato e di governo (che razza di consesso è?), parlando dei bambini palestinesi e tacendo di quelli ebrei, che il marito vorrebbe cancellare.
Mentre noi ci pieghiamo al rito, non avendo la banale sincerità d’indicarne il vuoto, i cinesi, grazie ai soldi che noi spendiamo per acquistare i loro prodotti, comperano pezzi sempre più grandi d’Africa e d’Asia. E non certo per ragioni umanitarie. Naturalmente, nessuno s’azzarda a dire che questo è colonialismo e, anzi, Obama vola dalle loro parti per assicurare che le convenzioni sul clima resteranno lettera morta, potendosi continuare ad inquinare a piacimento. Potenza del debito pubblico statunitense, per la gran parte nelle casse dei cinesi.
E veniamo alle questioni commerciali. Un’arancia o un mandarino di Palermo costano di più dei frutti che arrivano da lontano. In compenso hanno il sapore degli agrumi, mentre le insalate che comperiamo al supermercato sanno di confezione: puoi aprirle o leccare la busta, tanto il sapore è lo stesso. Ci sono due strade: la prima consiste nel far valere le regole della sana coltivazione in tutti i Paesi da cui s’importano prodotti, la seconda nel proteggere la nostra agricoltura. Nel primo caso occorrono autorità internazionali e capacità coercitiva fuori dai confini nazionali, nel secondo (che è quello praticato) si finisce con il colpire gli interessi di quegli stessi Paesi che nella stanza accanto si afferma di volere aiutare. Il che serve a capire che i vertici contro la fame sono tempo perso, perché quelli che contano sono dedicati al commercio internazionale.
Infine, c’è il politicamente scorretto anche in campo economico, perché tutti s’affannano a raccontare quel che deve essere fatto, ma nessuno osa dire quel che è già successo: la povertà, nel mondo, è diminuita, come sono significativamente diminuiti i morti di fame. Non è avvenuto, però, grazie alla bontà governativa organizzata, ma grazie alla globalizzazione dei mercati. Che è un fenomeno grandemente positivo, anche perché spinge allo sviluppo ed alla distribuzione della ricchezza, così premendo sugli argini di regimi oscurantisti e dittatoriali. La bestialità del mercato ha fatto annusare a molti il profumo del benessere e della libertà, laddove la carità governativa serve all’esatto contrario, conservando in vita sistemi politici che meritano d’essere travolti.
A questo aggiungete il tema della demografia, con un mondo che invecchia e si stabilizza (il nostro), accanto ad un altro sempre più giovane ed in crescita esplosiva, e chiedetevi se questo approccio parrocchiale al tema della povertà ha qualche cosa di sensato.
Pertanto, profondamente convinto che gli esseri umani abbiano tutti eguali diritti e tutti debbano potere aspirare alla libertà “di” (quindi politica) ed alla libertà “da” (quindi economica, dalla fame e dalla miseria), mi punge vaghezza che democrazia e ricchezza collettiva viaggino sullo stesso binario. Che va sgomberato dai suoi nemici.

1 commento:

maria luisa cohen ha detto...

Assisi 24 novembre 2009

Egregio signor Giacalone,

Ho letto il suo articolo sulla Fame nel mondo (Martedì 17 Novembre 2009Fao, fame e libertà. )e mi congratulo per le verità che esso contiene.

Rilevo comunque che l’inefficienza colpevole della Fao, il suo carrozzone di dispendiosi impiegati burocrati e i rigurgiti lapalissiani sui problemi della fame, con implicita colpevolizzazione dell’Occidente per non provvedere alla loro risoluzione, sono oramai un oggetto di scherno.
I capi di stato, i politici, gli stessi ambientalisti, gli economisti, eccetera, fanno finta di credere per non essere accusati d’insensibilità, ma in fondo esiste uno scetticismo strisciante che accompagna queste repetitive affermazioni.
Le spiegazioni sulla povertà e l’arretratezza di certe aree del mondo non accennano alla parallela crescita demografica, che non si riscontra in paesi economicamente e socialmente avanzati.
Il nostro pianeta ha raggiunto i 6,7 miliardi di persone e il 90% di questa crescita avviene nei paesi piu’ poveri.
Questa crescita è un importante fattore del sottosviluppo di quei paesi dove ogni sforzo per eliminare la povertà viene annullato dalle crescenti esigenze di provvedere per un numero sempre crescente di nuovi nati, che poi dovranno competere per risorse e lavoro. Dovremmo esaminare la situazione per prevenire e non già per intervenire solamente quando c’è la crisi , crisi che oggi è divenuta permanente.Gli interventi umanitari non sono utili se non si incoraggia una parallela diminuzione della natalità.
La d.ssa Christine Kirunga Tashobya, Ministro per la salute in Kampala (Uganda),nota che il tasso di fertilità è di 6,7 per donna, e la conseguenza è che il 31 % della popolazione vive in totale povertà.
Secondo il Population Reference Bureau, 24 milioni di gravidanze annuali nel mondo finiscono in aborti , rischiosi e illegali., causando la morte di circa 70.000 donne all’anno . Questo stato di cose è inaccettabile e dimostra quale sia il bisogno di regolare le nascite secondo le possibilità economiche esistenti. La mancanza di opportunità educative per le donne è un incentivo a un’alta fertilità.
Le donne non vogliono piu’ figli, ma una vita migliore. (v. R.Engelmann : “More: population, nature, and what women want” ) Non si tratta di forzare la contraccezione, ma di aiutare le donne a decidere nel contenere una crescita demografica che nega loro e ai loro figli un avvenire di sviluppo.

Con cordiali saluti
Maria Luisa Cohen
Presidente Assisi Nature Council
www.assisinaturecouncil.org