mercoledì 6 gennaio 2010

Telecom agli spagnoli. Davide Giacalone

S’avvicina il capolinea, per Telecom Italia. La malaprivatizzazione ha dato il suo esito annunciato, e l’Italia potrebbe uscire dal mercato delle telecomunicazioni. Ci vorrà ancora qualche tempo, per perfezionare i passaggi, ma gli spagnoli di Telefonica s’apprestano ad essere i nuovi proprietari. Le smentite, giunte ieri da Mediobanca, Intesa e Generali, che sono i venditori, suonano stonate. Le voci, secondo loro, sarebbero “prive di ogni fondamento”. Suvvia, non esageriamo, il fondamento c’è, eccome. Magari non c’è ancora il fatto. C’è la beffa, però, perché grazie ai pastrocchi inventati, per favorire amici ed amici degli amici, la società è negoziabile fuori dalla Borsa, facendo marameo al mercato, alle sue regole e ai risparmiatori.

Nulla, però, che i nostri lettori già non conoscano. Quando, nell’ottobre del 2007, il controllo di Telecom fu assunto dalla società Telco, scrissi che si trattava di una vendita differita. Intendevo che il 24,5% delle azioni finivano ad una società nel cui seno un solo socio aveva idea di cosa fossero le telecomunicazioni: Telefonica. Quelli erano i veri compratori. Il patto di sindacato è stato rinnovato, è vero, due banche ed una compagnia d’assicurazioni continuano a detenere il controllo, ma continua anche l’impotenza operativa, lo stallo amministrativo, l’assenza d’idee. E’ il capolinea.

Telecom Italia era un centro d’eccellenza, nel sistema italiano, è divenuto un peso. La nostra rete di telecomunicazione era cresciuta, nel mondo, anche grazie agli emigranti (si pensi alla storia eccezionale di Italcable), ora è un pascolo spelacchiato, devastato da profittatori ed incompetenti. Si poteva (e si può) riprendere, ma a patto che la società trovi mani competenti ed interessate ad altro che al proprio tornaconto. Avevamo tecnologia all’avanguardia, eravamo fra i primi al mondo, nel settore mobile, siamo divenuti arretrati.

La storia della decadenza è iniziata nel 1997, quando il governo Prodi decise di vendere Telecom Italia. Fu la peggiore privatizzazione possibile: una svendita, accompagnata da totale assenza di visione strategica. Il pacchetto fu venduto chiuso, con dentro la rete. Un errore tragico, che ci costa moltissimo. Nel 1999, complice il governo D’Alema, le pur blande regole della privatizzazione furono violate, assieme al resto delle leggi che regolano il mercato, sicché Telecom passò nelle mani d’assaltatori, guidati da Roberto Colaninno. La società fu impiombata con i debiti che gli acquirenti avevano fatto, per comprarla. Nel 2001 Colaninno viene scaricato dai suoi soci, che vendono a Tronchetti Provera. Quest’ultimo prende (pagandola troppo) una società indebitata, indebolita, che ha perso il vantaggio tecnologico, ma ancora abbastanza ricca da potere essere spremuta. Le viene sottratto altro sangue, sia con gli affari all’estero che con lo scorporo degli immobili. Mentre la società s’impoverisce, insomma, chi la controlla s’arricchisce. Le autorità di controllo, dormono.

All’epoca di Colaninno si era gridato al miracolo, per la prima grande Opa (offerta pubblica d’acquisto) del mercato italiano. Ma erano entusiasmi da incompetenti in malafede. Perline ad indiani beotamente entusiasti, perché l’Opa era guidata da società lussemburghesi (alcune radicate a Cayman Island), sicché il controllo di Telecom s’è potuto negoziarlo non solo fuori dalla Borsa, ma anche fuori dall’Italia, con gran gioia e guadagno dei profittatori, fra i quali gli gnomi della finanza rossa. Poi hanno fatto entrare gli spagnoli, che, pur indebitatissimi, hanno una strategia internazionale. Come volevate che andasse a finire?

In tutti questi anni la rete s’è impoverita, e, ora, mostra la corda. Mentre gli altri cittadini europei dispongono della larga banda, da noi ancora si riparano i guasti al doppino in rame. Siamo i quartultimi in Europa, corriamo con le scarpe slacciate. E non può che essere così, perché la rete dovrebbe essere l’elemento comune a tutti gli operatori, talché sia, al tempo stesso, lo strumento ed il terreno della loro sfida. Sulla rete devono viaggiare i servizi di tutti, e la rete deve portare a tutti le singole offerte commerciali. Ma se uno dei concorrenti è anche proprietario e gestore della rete, va a finire che quest’ultimo non investe nell’aggiornamento tecnologico, dovendo subire un costo dei cui vantaggi si giovano anche gli altri.

In Inghilterra hanno risolto il problema creando Openreach, che è posseduta dal British Telecom Group, ma è nettamente separata, sia contabilmente che operativamente. Così si garantisce eguale diritto d’accesso ed uso a tutti gli operatori e tutti, compresa Bt, contribuiscono al bilancio di Openreach. Se il governo inglese vuole, come ha fatto, contribuire allo sviluppo tecnologico, può farlo mettendo facilitazioni a disposizione di una società che serve tutti. Noi siamo rimasti alcune caselle indietro, ed anche a volerci mettere i soldi non sapremmo bene dove (o, meglio, ciascuno crede di saperlo, ma seguendo istinti non necessariamente al servizio dell’interesse collettivo).

Ogni tanto esce fuori qualcuno e sostiene che una società pubblica deve comprare, da Telecom, la rete. Bella roba! L’abbiamo pagata noi, l’abbiamo venduta male e, ora che è vecchia e bisognosa d’investimenti, ce la ricompriamo. Geniale. Telecom, del resto, non ha voluto venderla, perché una volta scorporata la rete si sarebbe visto, ad occhio nudo, che il resto non regge. Le banche, infine, siedono nella società che controlla Telecom per salvaguardarne l’“italianità”. Nel caso delle telecomunicazioni l’interesse strategico nazionale è più percepibile di quanto non lo fosse con Alitalia, ma stanno mollando la presa, per riprendersi quattrini non avvedutamente prestati. Un’operazione del genere non si chiude senza il benestare, o, almeno, la non ostilità del governo. Ritengo sia ragionevole non opporsi, perché non ha senso allungare l’agonia di una società senza proprietari e senza strategie. Ma la sconfitta, perché di sconfitta si tratta, deve anche essere l’occasione per riprendere il governo del settore, imponendo ai gestori di portare ricchezza al Paese, non solo di trarne.

Quella di Telecom Italia resta la storia emblematica della seconda Repubblica, con la politica ridotta a sensale e i corsari dediti al saccheggio di quello che, un tempo, era cosa pubblica.

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