martedì 18 maggio 2010

La mossa. Davide Giacalone

Possiamo anche continuare a prenderci in giro, ma parlare dei tagli ai guadagni del personale politico, a cominciare dai parlamentari, ricorda la scoperta de “la mossa”, ad opera di Ninì Tirabusciò, interpretata da una sfavillante Monica Vitti. Ricordate? La giovane aveva grandi ambizioni culturali, desiderando divenire protagonista del teatro di prosa, culturalmente impegnato. Ne rimediava, però, solo miseria e umiliazioni. Un giorno le capitò di trovarsi sulla scena, scoprendo che una formidabile sculettata mandava il pubblico in visibilio, procurandole fama e saziandole la fame. Ecco, il dibattito odierno somiglia a “la mossa”.

I cittadini sono discretamente imbufaliti con il mondo politico, di cui non apprezzano la perdurante inconcludenza. A questo s’aggiunge una mai esaurita vena qualunquistica, che suppone essere di pubblico giovamento la cancellazione di tanti privilegi inutili. Ricevo innumerevoli messaggi in tal senso, cui rispondo senza cedere alla facile ricerca del consenso, che non serve a nulla, ma invitando a ragionare. Ora, però, siamo al colmo, perché il qualunquismo è praticato dagli stessi che ne dovrebbero essere il bersaglio. Pertanto, è bene invitare loro, signori ministri e signori parlamentari, a essere seri.

Dal punto di vista dei numeri, quindi delle grandezze economiche, quei tagli sono pressoché irrilevanti, ma avrebbero una funzione diversa, non meno importante: dare il buon esempio. Solo che quello offerto è cattivo. Perché se sei al governo e sei parlamentare non rilasci interviste proponendo tagli, li fai. E se i colleghi non te lo impediscono, mettendoti in minoranza, li denunci all’opinione pubblica. Al contrario, farsi belli dando veste ministeriale alle chiacchiere da bar equivale a sculettare per acchiappare un applauso o un urlo ingrifato. Non esattamente quel che si definisce un costume da statista. E, badate, non si tratta solo dei soldi che mettono direttamente in tasca, sui quali ci sarebbe molto da dire (i nostri parlamentari, nazionali ed europei, sono pagati troppo, ma, ad esempio, un ministro è pagato troppo poco), bensì di tutta quanta la spesa pubblica. Quella che siamo chiamati a coprire con le tasse che versiamo.

Ce ne stavamo qui solitari, a scrivere che l’eccesso di spesa pubblica è causa di disfunzioni e disservizi, che, come capita per la giustizia, si dovrebbe spendere meno per avere di più, ma avevamo anche l’impressione di parlare con il muro. Abbiamo argomentato, per mesi e mesi, che il sistema pensionistico è non solo troppo dispendioso, ma largamente ingiusto, che l’età pensionabile deve crescere se non si vogliono lasciare i giovani a bocca asciutta. Abbiamo ripetutamente dettagliato il perché la spesa sanitaria non cresce per salvaguardare la salute, ma per favorire affari che la danneggiano. E ci hanno sempre risposto: le cose non vanno poi male, per ora non è il caso di far cambiamenti, durante la crisi non si devono spaventare gli italiani. Che se c’è una cosa che fa paura è l’immobilismo e la mancanza di riforme profonde. Sta di fatto che siamo arrivati, adesso, a parlare di tagli senza avere fatto le riforme, che è, di gran lunga, la cosa peggiore. Noi ritenevamo, e riteniamo, che debba essere affrontato tutto intero il modello di welfare state, perché divenuto clientelare ed ingiusto, in modo da salvarne le finalità sociali. Stando fermi, invece, ci si trova a doverlo tagliuzzare da ogni parte, lasciandone immutato il modello insostenibile, quindi limitandone gli effetti sociali. Il tutto si riassume in due concetti: a. fallimento della politica e, b. ineludibilità dei vincoli di bilancio.

Abbiamo a lungo parlato della crisi come di un’occasione, di una leva con cui sollevare una vettura impantanata (da almeno quindici anni) e rimetterla sulla via dello sviluppo. Ora ce la sorbiamo per intero, la crisi, ma come disgrazia. La cosa che è riuscita meglio, a questo governo, è stata la chiusura delle casse, il non spendere mentre altri dilapidavano. Bene, ma è anche vero che l’Italia è stato il primo Paese ad entrare in recessione e, ora, l’ultimo (fra i grandi) a uscirne. Con molta, troppa lentezza. I tagli che oggi s’annunciano si doveva farli prima, proprio perché c’è uno strato enorme di spesa improduttiva nel quale si può incidere provocando dolore solo a quelli che ne campano, senza danneggiare il resto della società. Certo, è inutile piangere sul latte versato e il tempo trascorso, e può essere utile anche dare segnali esemplari. Prendere in giro, però, ammaliare con “la mossa”, significa soffiare sul fuoco, senza neanche spostare le chiappe.

Allora, tacciano. Muti. E ci facciano leggere, entro una settimana, il provvedimento con cui gli emolumenti parlamentari scendono del 30%, che significa, comunque, riscuotere 10.000 euro al mese. Taglino, subito, l’80% delle auto di servizio, togliendole a tutti gli enti e a tutti i funzionari dello Stato, lasciando un parco ristretto, che serva per ragioni di lavoro e non per essere prelevati da casa e portati al ristorante. Non risolve, ma aiuta. E ci mostrino la tabella di marcia che porta, entro l’estate, ai primi voti parlamentari per ridefinire le competenze degli enti territoriali, chiudendo le duplicazioni inutili, mettendo mano anche ad un capovolgimento totale del sistema sanitario, divenuto il più incurabile dei malati. C’è molto altro ancora, da mettere in cantiere, ma che siano cose concrete e immediate, senza sbrodolamenti in qualunquismo di Stato e imitazione dell’avanspettacolo.

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