martedì 13 luglio 2010

Cene e capezzoli. Davide Giacalone

Non serve un invito a cena in casa di Denis Verdini, per portare i magistrati al banchetto della spesa pubblica e nell’anticamera del potere (la cui sala principale è vuota, non esistendo l’inquilino). Non basta un comunicato dell’Associazione Nazionale Magistrati per coprire una vasta e devastante deviazione, che inquina la giustizia tanto quanto la vita pubblica. Come non bastano le dimissioni di Antonio Martone (uno dei convitati verdiniani, commensale di Flavio Carboni) per chiudere la faccenda, anche perché non le ha date, è solo andato in pensione. Tutta questa sbrindellata faccenda, dai contorni più grotteschi che orridi, indica la decadenza dei costumi pubblici. Vedo che, in ritardo di qualche anno rispetto a queste pagine, sul Corriere della Sera si sono accorti che l’Italia ha un problema di classe dirigente. E’ vero, e nel problema comprenderei anche la lentezza dei loro riflessi. Ma dirlo serve a poco, se poi non si ha il coraggio di mettere a fuoco i problemi specifici.

“Non vogliamo – ha scritto l’Anm – magistrati contigui al potere di turno e vicini ai comitati d’affari”. Giusto, ma è un’affermazione che possono fare i marziani, non gente che vive immersa in un sistema di commistioni e compartecipazioni. Il fatto è che non solo i magistrati non dovrebbero essere vicini al “potere di turno”, ma neanche dovrebbero far politica. Lo stabilisce la Costituzione, che molti sventolano e pochi leggono. Da noi, invece, ce ne sono troppi che non sembrano fare altro che politica.

Ci sono gli esibizionisti dell’inchiesta, quelli che accusano a casaccio, facendo bene attenzione, però, a colpire soggetti che consentano loro di finire sui giornali e, poi, poco prima che l’inchiesta abortisca in un mostriciattolo senza vita, si candidano e si fanno eleggere. A quel punto neanche si dimettono, ma si mettono in aspettativa, facendo marameo all’articolo 104 della Costituzione e a tutti i babbei che consentono loro di proseguire la vita da virtuosi della nullafacenza ben retribuita. Per non dire delle toghe che vestono l’abito dell’assessore, pretendendo pure di farlo in nome della toga.

Quando scade il mandato tornano al loro posto, scontando le promozioni per anzianità e i relativi aumenti di stipendio, accaparrandosi i posti meno attivi e dedicandosi quindi alla memorialistica e al teatro, che sarebbero anche delle nobili attività, se non fossero condotte a spese dei cittadini.

C’è anche, però, l’esercito di magistrati che fanno attivamente politica e governano, fingendo che i ruoli di capo di gabinetto, capo dell’ufficio legislativo o consiglieri ministeriali a vario titolo siano tecnici. Ma quando mai! Quella è la carne viva del potere, o di ciò che, con discreta fantasia, si chiama tale. Salvo poi giudicare e far giudicare ai colleghi sia gli atti amministrativi da loro stessi allestiti, sia quei malcapitati fessacchiotti di ministri, che firmano e si sentono furbi, salvo finire da soli nelle inchieste penali e contabili.

Se l’Anm vuol dire qualche cosa di significativo, se vuole parlare per dire e non solo per emettere suoni, affermi che questo mercato parallelo della magistratura deve chiudere, che ciascun magistrato deve scegliere: o amministra giustizia o fa politica. Senza mezze misure, senza i trucchi e gli imbrogli di cui sono colme sia la giustizia che la politica.

Non solo l’Anm, ma noi tutti dovremmo renderci conto che i magistrati seduti al desco di una casa romana, intenti a inforchettare una sugosa pietanza, semplicemente non erano in grado di rendersi conto d’essere nel posto sbagliato. Né ho alcuna voglia di inchiodarli a quella loro mancanza di sensibilità, perché sono in ottima e vastissima compagnia, talché occorrerebbe una fortinura supplementare di chiodi. Ed è appunto quello il nostro problema collettivo: la perdita di senso istituzionale, avere smarrito l’etica pubblica e i suoi pudori. Poi, per carità, tutti i pudori celano un certo tasso d’ipocrisia, ma l’assenza di pudore segnala l’assenza di etica. Del resto, che volete? Se è possibile che un ministro dica di avere intermediato affari non come ministro, ma nelle ore in cui si limitava ad essere una persona, la stessa cosa può fare un magistrato, che dispensa consigli desinando e poi li giudica sentenziando.

Al fondo di tutto c’è un sistema corrotto dall’assenza di competizione e merito. Vale per i magistrati, dove il più lavoratore e il più competente avanza come il più sfaticato e demente, e vale per la politica, dove la cortigianeria fa premio sulla schiena dritta e le idee chiare, come già cantava, disperato e furente, il Rigoletto. Tutto ciò, inoltre, è potuto accadere perché il Paese nel suo insieme ha preferito la rendita alla competizione, valendo ciò per gli scolari e i loro docenti, gli operai e le grandi imprese, financo per i cineasti e le loro cineprese, tutti intenti a ciucciare il ciucciabile, salvo scoprirsi indignati quando il capezzolo sfugge di bocca. Bé, non siamo ancora agli sgoccioli ma ci arriveremo, visto che perdiamo competitività da quindici anni. Cambiare strada e passo sarebbe necessario, ma non facile da spiegarlo a quanti ritengono essere un loro diritto quello che, in realtà, è un ingiustificato privilegio.

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