martedì 27 luglio 2010

E' la Storia stessa a smentire la propaganda anti-berlusconiana. Claudio Siniscalchi

Il berlusconismo è finito. Ciclicamente se ne parla. Anche in questi giorni si leggono commenti al riguardo. “Il Foglio” addirittura è già oltre, e si interroga sulla rimozione in atto, sulla cancellazione delle tracce del berlusconismo da parte dei berlusconiani pentiti. Se Veltroni poté dire di non essere mai stato comunista, il cammino è già tracciato. Lasciamo stare la questione odierna, e volgiamo lo sguardo indietro nel tempo. Come è cominciato il berlusconismo?

A questa domanda si può dare una risposta ovvia: fine del 1993, inizi del 1994. Un contenitore spiegherebbe tutto: Forza Italia. Naturalmente bisogna fare i conti con il partito del sospetto.

Forza Italia l’ha creata la mafia, sprovvista di sponda politica. Con questi schemi preconfezionati non si arriva da nessuna parte. Servono ad alimentare un mito: la sconfitta immeritata delle forze del progresso alle elezioni del 1994.

Verso la fine del 1993, dopo le votazioni in alcuni grandi comuni italiani, tra cui Roma, dove Francesco Rutelli ebbe la meglio sul “fascista” Gianfranco Fini (eh, la memoria!), il gioco sembrava chiaro: la sinistra avrebbe trionfato in maniera sorprendente. Da lì nacque l’iperbole della “gioiosa macchina da guerra” guidata da Occhetto. Il prode Achille tutto aveva previsto: tranne il berlusconismo (e naturalmente Silvio Berlusconi). L’uomo di Arcore si piazzò in mezzo nell’arena politica, e dal nulla riportò una clamorosa vittoria. Fortuna? Astuzia? Poteri occulti? Intervento divino? Saltiamo la fantasia, e proviamo a fare seriemente i conti con la storia.

Proviamoci ricorrendo ad un agile e sapiente libretto di Ernesto Galli della Loggia: “Tre giorni della storia d’Italia” (il Mulino, pag. 161, 10 euro). Nel corso del Novecento tre giornate hanno cambiato in maniera radicale il corso degli eventi della storia italiana: il 28 ottobre 1922, quando Mussolini prese il potere inaugurando il ventennale regime fascista; il 18 aprile 1948, quando Alcide De Gasperi sconfisse il Fronte Popolare composto da comunisti e socialisti; e il 27 marzo 1994, quando Silvio Berlusconi vinse le elezioni politiche. Già questo solo dato, che il 27 marzo 1994 possa essere considerata una data storicamente determinante per la storia italiana, farà rizzare i capelli in testa a non pochi commentatori della storiografia e della pubblicistica progressista italiana (cioè la stragrande maggioranza delle forze in campo). Non a caso le tesi di Galli della Loggia hanno suscitato scarsissimo dibattito. Il sospetto è che dentro il libro ci sia qualcosa, soprattutto in riferimento a Berlusconi, davvero di “politicamente scorretto”.

Ecco le parole che aprono il saggio: «Nell’Europa di oggi è più facile, in generale, parlare di Hitler che di Berlusconi: i rischi sono assai minori. Non credo di esagerare». Lo storico porta un esempio concreto: sostenere che «l’ascesa di Berlusconi e il mantenimento del suo potere sono stati assai favoriti dalle contraddizioni delle inchieste di “Mani Pulite” e dalla raffica delle inchieste a suo carico, non solo suscita, specie in certi ambienti, una diffusa incredulità, ma si rischia all’istante di essere sospettati di “stare dalla parte di Berlusconi”, incorrendo con ciò in un’immediata scomunica». Il vizio della scomunica è specialità ancora molto in voga in una determinata specie intellettuale.

Diciamolo subito: Galli della Loggia tutto è fuorché un berlusconiano. Da storico cerca di capire cosa non ha funzionato, a livello sistemico, nella lunga gestione del potere da parte dei democristiani, determinando un crollo così drammatico e rovinoso. Innanzitutto c’è stata la mancanza/impossibilità di una alternativa politica, a causa della presenza del più forte partito comunista del mondo, ad eccezione di quello sovietico. Inoltre la politica italiana, attraverso le partecipazioni statali, è stata proprietaria diretta di un terzo dell’economia dell’intero paese.

A partire dagli anni Sessanta la politica ha iniziato il decollo senza freni della spesa pubblica, sperimentando pratiche sempre più invasive di consociativismo. Nella Prima Repubblica, dice Galli della Loggia, «la politica diviene erogatrice, amministratrice e intermediaria di imponenti flussi finanziari dalla natura così varia e a così tanti livelli istituzionali da sfuggire ad ogni realistica possibilità di controllo». Tale sistema fu distrutto dall’intervento, mirato ad annientare alcuni settori, e a salvarne altri (il gruppo dirigente in blocco del vecchio Partito Comunista, la sinistra democristiana), da parte dei magistrati.

Commenta Galli: «L’intervento della magistratura non appariva forse lo strumento più idoneo». E poi lo storico ha un sospetto: possibile che il malaffare italiano, dato l’indirizzo assunto dalle inchieste giudiziarie, si concentrasse tutto a Milano e in poche altre città? Di ciò vi sono «ragionevoli perplessità». E la carcerazione preventiva? L’enfatizzazione mediatica delle inchieste? La stampa amica delle procure? Le esternazioni televisive dei magistrati che costrinsero il capo del governo Giuliano Amato a rimangiarsi il decreto Conso? Altri dubbi e perplessità.

La delegittimazione dei partiti governativi montò violenta, alimentata da un clima di anti-politica, indirizzata da alcuni giornali (“la Repubblica” in testa) e basata sulla rispolverata «questione morale» di Berlinguer e della diversità comunista. Il Pds (più o meno il vecchio Pci all’ombra della quercia del nuovo simbolo) per Galli «nutriva la fondata speranza, quindi, di poter essere il beneficiario finale del terremoto in corso». E il sogno svanì alle elezioni del 27-28 marzo 1994, quando iniziarono ad arrivare i primi risultati elettorali: Berlusconi aveva vinto.

Senza Berlusconi, dice Galli, «e senza le sue scelte strategiche assai difficilmente si sarebbe formato in Italia un consistente polo di destra, e dunque ben difficilmente avrebbe messo radici un sistema bipolare in grado di assicurare l’alternativa al potere».

Tutti ricordano il potere di Berlusconi, il “regime berlusconiano”, dal 1994 ad oggi: ma in quest’arco di tempo c’è stato anche un governo del “ribaltone” (Dini), uno di Prodi (al quale è succeduto D’Alema e successivamente Amato, per completare la legislatura), poi un altro brevissimo interregno di Prodi. Ma nonostante tutto ciò - l’evidenza dei fatti storici - ancora non siamo arrivati al nocciolo della questione. E Galli non si sottrae.

Perché una parte consistente degli italiani votò Berlusconi, nonostante la demonizzazione fattane dagli avversari? «L’Italia ostile alla sinistra serrò i ranghi in tutte le sue varie componenti - da quella conservatrice, a quella reazionaria, a quella moderata, ma anche a quella riformista socialdemocratica». Nel momento dello sbandamento e nell’approssimarsi dell’imminente sconfitta, quest’Italia trovò un capo credibile e ottimista, al quale affidare il proprio mandato, e grazie al quale fu condotta alla vittoria. Fidandosi della propria esperienza - dice Galli - molti italiani non prestarono fede al fatto che la corruzione politica fosse esclusiva di alcuni partiti, e ritennero parziale e politicizzato l’operato della magistratura. E il fatto che Antonio Di Pietro, il simbolo di Mani Pulite, abbia deciso di scendere in politica, non è servito a dissipare, anzi ha rafforzato il dubbio emerso tra la fine del 1993 e i primi mesi del 1994. Così come ad alcuni Mussolini apparve, per giustificare la sconfitta, l’autobiografia nazionale, lo stesso discorso vale per Berlusconi: è l’autobiografia malata della nazione (il virus fu lanciato a mezzo televisivo, per avere successivamente ricaduta politica).

Ma Galli della Loggia sgombera anche questa ulteriore fantasia. Il nodo del vuoto morale venuto al pettine alla fine degli anni Ottanta, non è colpa della televisione (e quindi di Berlusconi), ma di una profonda trasformazione sociale. «Quello che si chiama “berlusconismo” non è il frutto di una qualche oscura degenerazione morale che ha colpito una parte del popolo italiano».

Insomma, per chiudere: la propaganda anti-berlusconiana è sempre gravida e generosa di prole. La storiografia però, se non parte da pregiudizi limitanti, anche se in forma di esile trattazione manda al macero d’un colpo quintali di carta straccia. (l'Occidentale)

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