giovedì 15 luglio 2010

Più immobili cha stabili. Davide Giacalone

I governanti delle democrazie occidentali sono in crisi, di efficacia e di consensi. Con una eccezione: l’Italia. Tutti i governi hanno perso le elezioni, politiche e amministrative, o sono crollati nei sondaggi. Non quello italiano, che ancora la settimana scorsa, in un sondaggio commissionato da La Repubblica, quindi da un foglio ostile, era segnalato in larghissimo vantaggio sull’opposizione e su ogni altra ipotesi o formazione. Visto che siamo i più stabili e anche i più entusiasti di chi ci governa, ne traiamo reale giovamento? La risposta è negativa. Più che una società stabile sembriamo una società immobile, il che si riflette sulla politica.

Barack Obama è stato eletto trionfalmente. A meno di due anni da quel giorno e a quattro mesi dalle elezioni legislative di medio termine, il suo indice di gradimento è al minimo, facendo registrare il consenso di appena il 40% degli intervistati. Eppure s’è insediato fra mille promesse e grandi propositi, quando la crisi economica era già scoppiata, con una benevolenza dei media, largamente mantenuta. E’ ugualmente crollato. Dopo che il suo governo aveva già subito perdite significative. Nicolas Sarkozy s’è presentato sulla scena con le carte in regola per essere un uomo nuovo nello scenario europeo: conservatore senza timori nel campo della sicurezza e dell’ordine pubblico, aperto al contributo delle sinistre, modernizzatore nell’amministrare, innovatore nel linguaggio. Scandali, veri o presunti, qui conta poco, e inefficacia dell’azione lo hanno fatto scendere nella considerazione dei connazionali. Oggi sembra il candidato migliore a dimostrare la coincidenza fra quel che affascina del potere e quel che incattivisce, contro il potere. In Germania Angela Merkel naviga in cattive acque, è costretta alle coalizioni e tracolla in regioni prima fedeli. In Spagna l’era di José Luis Rodriguez Zapatero, detto Bambi, è arrivata al capolinea. E così via, saltabeccando da destra a sinistra, ma sempre con la stessa, non invidiabile, sorte. In Italia no. Da noi sembra che ogni giorno debba venire giù il mondo, ma ogni sera si va a cena con quello di prima. Come mai?

E’ vero che l’opposizione italiana s’è squagliata, organizzativamente e idealmente, ma è anche vero che in ciascuno dei Paesi prima ricordati non è l’opposizione ad avere guadagnato consensi, parlando ai cittadini, ma sono i governi ad averli persi, presso i cittadini che parlano fra di loro. La spiegazione non è questa, dunque. Allora? Propongo una chiave di lettura: nelle democrazie consapevoli gli elettori si aspettano qualche cosa, dal governo, e se non vedono risultati passano dalla lamentazione alla sottrazione dei consensi, nella nostra democrazia formale, invece, ci si aspetta poco e niente, il che funziona come antidoto della delusione. Al governo si chiede di non rompere più di tanto, escludendo in partenza che sia capace di costruire. Al disincanto e allo scetticismo, però, uniamo faziosità e tifoseria, sicché il nostro voto resta largamente ideologico, pur in mancanza d’ideologie. E’ un voto contro, che si articola e distribuisce attorno all’unico leader naturale, non necessariamente politico, che si muove sulla scena: Silvio Berlusconi.

Egli stesso, del resto, si presenta come un antagonista del “vecchio modo di far politica”, come in questi giorni ci tiene a ricordare. La sua capacità, dopo sedici anni di politica, è sempre quella di presentarsi come un avversario della politica. Un super-italiano, che racconta agli altri italiani il sogno del governo minimo e della libertà massima. Ma proprio le ore che viviamo dimostrano che quella suggestione deve essere alimentata di atti concreti, immediati, per non essere percepita come la mascheratura del sempre uguale (compresa la seconda mozione di sfiducia nata all’interno della maggioranza e presentata per interposta opposizione). Sono stati commessi molti errori, il più grosso sarebbe non comprendere che si deve rimediare. Ora.

In caso contrario non capita nulla di epocale. Cala l’umidità che tiene assieme i granelli e il castello torna a essere sabbia. Gli italiani sanno di saperlo e non credono né alla minaccia delle torri né alle lusinghe delle corti. La crisi ci disturba, naturalmente, i problemi li vediamo, i dolori li subiamo, le preoccupazioni le nutriamo, le speranze le alimentiamo, ma ci sfugge il nesso fra ciò e il voto, fra la vita privata e la sua proiezione collettiva, che si chiama: politica. Riceviamo, del resto, quotidiane conferme dell’opposto, ovvero di una politica che serve ad alcuni per dare un senso e un lustro alla loro vita privata. In un contesto civile che interiorizza e produce la corruzione. E’ un concetto forse difficile, che vorrei rendere raccontando una storia istruttiva. Nel trapanese può capitare che chi resta inascoltato, o chi parla a familiari che si distraggono, esclami: “e cu parrò, Nunzio Nasi!?”. Chi era, costui? Fu presidente di quella provincia e parlamentare nazionale a cavallo fra l’800 e il 900. Fu anche ministro. Avversario di Giovanni Giolitti fu incastrato per uno scandalo e condannato per peculato: aveva utilizzato per scopi personali materiale di cancelleria e la carrozza. 11 mesi di reclusione e interdizione dai pubblici uffici. I trapanesi continuarono ad eleggerlo, anche se interdetto, perché uomini di cuore, ma ne ridevano, perché uno che “acchiana” fino a Roma e manco può fottersi le matite e la carrozza deve proprio essere uno che non conta un cappero.

Il potere ha un senso, in quella detestabile concezione, se serve a procurare vantaggio per sé, per i familiari, per gli amici e per i fedeli elettori. Altrimenti non serve. Ero un siculo pivello quando ascoltai Leonardo Sciascia sostenere che quello era il male che avvelenava la Sicilia: l’assenza di fede nelle idee, il credere che il mondo non potrà essere diverso da come è stato. E siccome vedeva quel male espandersi, diceva che la Sicilia era divenuta una “metafora”.

La nostra vita politica riflette in pieno quella sociale, ed è ferma da quindici anni. Immobilizzata. Forzata a ripetersi sempre uguale, con le elezioni a far da altalena, in movimento oscillatorio e ripetitivo, nello spazio limitato consentito dalla corda. Può darsi ci sia dell’irrazionale nella condanna che le genti del mondo libero lanciano sui loro governi, ma c’è della follia nel nostro rivivere sempre le stesse scene, sempre gli stessi conflitti, in uno stanco ricorso che non raggiunge la tragedia e non genera neanche la farsa.

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