mercoledì 7 luglio 2010

Sono stati gli aguzzini di Mangano a farne un "eroe", non Dell'Utri. Lino Jannuzzi

Nel 1974,quando Vittorio Mangano viene ingaggiato e sale ad Arcore a fare il fattore (e non lo “stalliere”), ha 33 anni e due o tre condanne per assegni a vuoto. Ma non lo trovano, perchè continuano a notificargli le condanne a Palermo, mentre ha la residenza ad Arcore con tutta la famiglia, suocera compresa. Lo trovano dopo un anno, quando vanno a indagare ad Arcore per il tentato rapimento, in cui Mangano non c'entra, di un ospite di Berlusconi. Lo arrestano, gli notificano le sue pendenze, per cui a Palermo è stato processato in contumacia, e lo rilasciano dopo una settimana. Mangano se ne torna a Palermo, dove viene arrestato nel 1980 e viene processato per l'articolo 416, l'associazione a delinquere semplice (non c'era ancora il 416 bis, l'associazione mafiosa). Lo accusano di essere diventato “reggente” della “famiglia” mafiosa di Porta Nuova dopo Salvatore Cancemi, ma in realtà Pippo Calò, che ha lasciato la carica perchè è in galera, diffida di lui, che non è mai passato con i “corleonesi”, e gli preferisce Salvatore Cucuzza. Giovanni Brusca, il boss più vicino a Totò Riina, legge sull'Espresso che Mangano è stato a lavorare ad Arcore e gli domanda se è possibile per lui riprendere i contatti con Berlusconi. Mangano gli risponde che non è possibile. Condannato nell'ambito del processo Spatola, l'unica sentenza definitiva avuta da Mangano, sconta tutta la pena, si fa dieci anni di carcere ed esce nel 1990. Quattro anni dopo essere uscito dal carcere, nell'aprile del 1994, in perfetta coincidenza con la discesa in campo di Silvio Berlusconi (che intanto è iscritto segretamente sul libro degli indagati) e con l'inizio delle indagini su Dell'Utri, Mangano viene “fermato” in base al decreto speciale e successivamente viene arrestato per l'articolo 416 bis per reati “presumibilmente” commessi dopo il 1990. Non gli vengono contestati reati precisi, ma viene ripetutamente interrogato su Dell'Utri e Berlusconi.

Paolo Borsellino, su richiesta del pm Guido Lo Forte, lo proscioglie dal reato di concorso in estorsione, ma Mangano viene intanto accusato per l'omicidio di un ricettatore, tale Vinciguerra. Nel luglio del 1999 la Corte di assise di primo grado lo condanna all'ergastolo, condanna che non diverrà mai definitiva perchè Mangano muore l'anno dopo. Nella sentenza la Corte stabilisce l'incompatibilità di Mangano con il carcere e la necessità di ricoverarlo in un centro clinico, dove deve essere curato e monitorato 24 ore su 24, per tenere costantemente sotto controllo la cardiopatia ipertensiva (pericolo incombente di infarto) e la vascolopatia cerebrale (pericolo incombente di ictus). Già quando era stato arrestato, Mangano aveva avuto un trauma cranico in seguito a un incidente automobilistico, una scapola fratturata e lesioni alla colonna vertebrale. Mangano viene rinchiuso invece nel carcere duro di Pianosa, dove gli viene l'epatite e gli si formano delle placche alla carotide che gli riducono il flusso del sangue al cervello. Il suo avvocato denuncia che a Pianosa i detenuti si infettano tra di loro perchè i carcerieri gli fanno la perquisizione anale con lo stesso guanto. A Mangano viene un ictus, lo mettono sulla sedia a rotelle e lo trasferiscono in un centro clinico. Due settimane per qualche accertamento e lo riportano a Pianosa. Gli viene un infarto, perde per una parestesia l'uso del braccio e della gamba destra. Inutilmente il suo avvocato riempie gli archivi del tribunale di istanze per sollecitare l'intervento dei medici e il suo trasferimento in un centro clinico o agli arresti domiciliari. Mangano viene invece trasferito al carcere duro di Secondigliano, peggio che a Pianosa, e viene sentito in videoconferenza dall'aula di Palermo dove processano Dell'Utri: gli chiedono di Arcore, dei cavalli, di Dell'Utri e di Berlusconi. Successivamente viene trasferito in barella direttamente nell'aula del processo a Palermo, e gli chiedono ancora di Arcore, dei cavalli,di Dell'Utri e di Berlusconi.

L'agonia di Mangano dura un anno. Il 20 giugno del 2000, a un anno dalla sentenza, il suo avvocato lo va a trovare e, attraverso i vetri, si rende conto che la situazione è precipitata e invoca i periti del carcere. Giallo come un limone per tutto il corpo, dalla cornea degli occhi alla punta dei piedi, le papille gonfie, l'epatopatia attiva, il fegato distrutto, gli trovano 18 litri di liquidi nella pancia, la cirrosi galoppante, i periti sconvolti denunciano gli “inspiegabili ritardi dei sanitari in carcere” e decretano che “non c'erano più spazi per interventi”. Il 3 luglio la visita dei periti, il 4 luglio la diagnosi, il 5 luglio il procuratore di Palermo Piero Grasso, appena insediatosi al posto di Caselli,firma in fretta per gli arresti domiciliari e Mangano viene scarcerato e viene trasportato in barella a casa. Il 23 luglio muore. Nell'ultima lettera alla moglie e alle figlie aveva scritto: ”Non si baratta la dignità con la libertà”. E ha voluto dire che, piuttosto che accusare ingiustamente Berlusconi e Dell'Utri, ha preferito restare in carcere e morire. Quando la “Giustizia” arriva a questi orrori, quando l'amministrazione della Giustizia può arrivare fino al punto di torturare e uccidere un uomo per costringerlo a testimoniare il falso, allora può anche succedere che il più infame dei mafiosi, al confronto dei suoi aguzzini, appaia come un “eroe”. (il Velino)

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