venerdì 3 settembre 2010

Bande e dossier. Davide Giacalone

Forse il Presidente della Repubblica ha ragione: il festival del cinema è il luogo più adatto per mettere in scena il logorio del tessuto istituzionale e gli sbreghi che lo attraversano. Sul rosso tappeto delle dive (o presunte tali) sfila anche una politica che è più rappresentazione di se stessa che non realtà, al punto da tollerare che lo spettacolo s’arricchisca di poliziotti che si mostrano al mondo accoltellati alle spalle mentre la più alta carica dello Stato, lungi dal cogliere la gravità del fatto, indulge a spiritosaggini che dimostrano più la freddezza dei rapporti istituzionali che non una vocazione alla freddura.

Sarebbe un errore, però, credere che lo spettacolo, poco commendevole, sia rappresentazione esclusiva di pochi uomini, gravati da storie non digerite, ambizioni non appagate, ripicche non controllate, vendette non consumate. La malattia, perché tale mi sembra essere, non coglie solo un pezzo del Paese, ma mostra i suoi sintomi per ogni dove. Ciascuno corre a portare il proprio contributo allo sfascio, nella speranza di ricavarne un vantaggio immediato. Forse è il caso di segnalare il pericolo, nella certezza di non ricavarne neanche un ascolto distratto.

Mi ha colpito la sorte che, in questi giorni, è toccata a Corrado Passera, amministratore delegato del gruppo Intesa San Paolo. Il 19 agosto è stata pubblicata, dal Corriere della Sera (quotidiano nella cui proprietà la banca stessa è coinvolta), una sua lunga intervista. Svolgeva ragionamenti interessanti, ciascuno meritevole di approfondimenti e ulteriori riflessioni. Erano parole pesanti, perché pensate, e non è sfuggito, naturalmente, che siano state pronunciate in un clima politicamente difficile. Il succo, se mi è consentita la brutale sintesi, era: l’Italia ha enormi potenzialità, ma si deve lavorare seriamente, mentre la classe dirigente fugge alle proprie responsabilità. Io credo che la citata classe dirigente sia, più che altro, in gran parte incapace e mal selezionata, ma, insomma, quello era il senso.

Come quando si spara una fucilata in un bosco affollato e rumoroso, immediatamente dopo c’è stato un attimo di silenzio. Dopo di che sono arrivate le notizie sui presunti intrallazzi di Passera e della sua famiglia: affari alberghieri, soldi e società all’estero, approfittando di paradisi fiscali, conflitti d’interesse nell’amministrazione della banca, prestiti ad amministratori, uso dello scudo fiscale e favoritismi al fratello. Probabilmente dimentico qualche cosa, ma cambia poco, tanto non ne so nulla. Tutto questo, vero o falso che sia, realistico o esagerato, non ne ho idea, preesisteva all’intervista, ma non era mai uscita una sola riga. Niente. Silenzio.

Posto che Passera smentisce, e posto che nessuno ha dimostrato niente in nessuna sede competente, che, quindi, le chiacchiere stanno a zero, l’impressione terrificante è che il nostro sia divenuto un Paese in cui ciascuno, a misura delle proprie possibilità e capacità, possa fare quel che gli pare, a condizione, però, di non proiettare la pipì fuori dal vaso. Non appena metti la capoccia fuori dal seminato, non appena approfitti del potere, della visibilità o, semplicemente, del diritto di parola fuori dal rispetto degli equilibri spartiti e nascosti, allora si scatena l’inferno. Evidentemente non determinato e finalizzato alla promozione dell’etica pubblica, ma, all’opposto, furioso perché s’è violata la regola della non intromissione. Che può anche essere chiamata: omertà.

L’ho scritto anche nel caso di Gianfranco Fini: se è vero quel che è emerso, e che lui non è stato in grado di smentire, la sua condotta è da considerarsi vergognosa, ma è non meno significativo che tutte queste storie siano emerse dopo una rottura politica, e non prima. Certo, i giornalisti pubblicano quel che hanno, semmai ritardano si tratta di qualche giorno, ma è come se in Italia ci fosse una centrale del fango (ad essere ottimisti ed olfattivamente prudenti), pronta a scattare nel momento opportuno. Il che non significa che taluni si possano descrivere come vittime, ma che noi tutti siamo vittime di un sistema senza controlli, senza giustizia, senza condanne, senza assoluzioni, dove s’è autorizzati a credere che il più pulito abbia la rogna, ma che la cosa emerge solo grazie alla guerra per bande.

Di Fini discussi l’indirizzo politico, senza attendere quello monegasco. Di Passera avrei voluto discutere le suggestioni, come anche le intenzioni, senza essere sommerso da faccende alberghiere e bancarie. E se quelle cose sono vere vorrei che i responsabili, quale che sia la loro funzione, fossero messi fuori gioco. Come vorrei che le persone oneste non debbano vedersela con la palta nel ventilatore. Ma questa è l’Italia costruita dal moralismo senza etica e dal giustizialismo senza giustizia. Che merita d’essere affondata. Anche a Venezia.

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