venerdì 24 settembre 2010

L'Italia immaginaria della sinistra. Luca Ricolfi

Una settimana fa Walter Veltroni ha scritto un manifesto, firmato da 75 parlamentari del Partito democratico, in cui analizza la società italiana, solleva severe critiche alla gestione Bersani del partito, indica una via alternativa per il futuro. Il documento ha provocato una grave lacerazione nel partito, che ieri la Direzione del Pd è riuscita in qualche modo a ricucire con uno dei soliti riti della vita interna dei partiti (voto a favore della relazione del segretario, con astensione delle minoranze dissidenti).

I giornali non hanno riportato gran che dei contenuti del documento, quindi sono andato a leggermelo su Internet (l’ho trovato subito con Google, ma ho faticato molto a «ripescarlo» dal sito del Pd, dove si trova, per così dire, un po’ acquattato). Lì ho scoperto che tra i firmatari del manifesto ci sono parecchie persone di cui ho la massima stima, come Pietro Ichino, Maria Leddi, Nicola Rossi, Enrico Morando. Una ragione di più per leggerlo attentamente.

Però alla fine, letto il documento e il corredo di interviste che l’ha circondato, ne sono uscito perplesso. Credo di aver capito, e persino di condividere, le preoccupazioni strettamente politiche del documento.

Anche se non lo dicono in modo esplicito, i veltroniani hanno due timori grossi come una casa, che riassumerei così. Primo timore: Bersani «gna fa», per dirla alla Funari. E non ce la può fare, a battere Berlusconi, non solo per mancanza di carisma, ma perché quel che il leader del Pd sembra avere in mente - un’alleanza che va da Vendola e Di Pietro fino a Casini - non potrebbe non rievocare la fallimentare esperienza del governo Prodi, che Veltroni vede (giustamente, secondo me) come il macigno che alle elezioni politiche del 2008 sbarrò la strada al «suo» Partito democratico. Secondo timore: la fine del bipolarismo, attraverso la nascita di un «centro» del 15-20%, il cosiddetto Terzo polo, arbitro dei giochi politici.

Quel che non mi convince, invece, è l’analisi della società italiana che il documento delinea. Un’analisi che, in molti passaggi, non è diversa da quella che abbiamo sentito in tutti questi anni, o quantomeno non ne prende a sufficienza le distanze. Perché, a mio parere, il problema di fondo del Pd non è che non riesce a proporre soluzioni convincenti alla crisi italiana, ma che ha un’idea errata, ovvero distorta e tendenziosa, della società italiana. Il problema, in breve, è innanzitutto la diagnosi, prima ancora della terapia.

Facciamo qualche esempio. Nel documento si dice che la disuguaglianza è «crescente», e che la frattura Nord-Sud «è tornata ad accentuarsi» (la tesi è decisamente audace, diversi indicatori suggeriscono il contrario, almeno dal 1998 a oggi). Si riconduce l’aumento del debito pubblico alla presenza del centro-destra al governo, come se il balzo degli ultimi anni non dipendesse essenzialmente dalla crisi economica internazionale. Si parla di riforme nel settore pubblico come se Brunetta - e Ichino! - non avessero fatto nulla.

Si parla della «battaglia per la legalità nel Mezzogiorno» come se fosse perduta, senza una parola per lo straordinario lavoro di questi anni contro la criminalità organizzata. Si fanno proposte di investimento e di spesa (in istruzione, ricerca, ammortizzatori sociali) che costerebbero miliardi e miliardi, come se ci fossero le risorse per portarle avanti, o come se trovare tali risorse non comportasse sacrifici enormi e di lunga durata.

Soprattutto non si esplicita il fatto che alcune idee dei veltroniani, solo accennate nel documento ma molto chiare in vari interventi pubblici, sono indigeribili per il centro-sinistra com’è oggi. Mi riferisco, ad esempio, al finanziamento selettivo degli atenei e delle scuole, con conseguente penalizzazione degli atenei inefficienti e dei docenti poco produttivi. O alla neutralizzazione dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori per i nuovi assunti, con l’istituzionalizzazione di forme di «flessibilità tutelata» (flexsecurity). Per tacere del federalismo, su cui il documento non spende nemmeno una parola ma che - se attuato seriamente - susciterebbe vivaci resistenze in una parte del Pd, specie nel Mezzogiorno.

Insomma, mi pare che il manifesto veltroniano, a dispetto del riformismo radicale di alcuni suoi firmatari, non ci fornisca una diagnosi dei mali del Paese poi tanto diversa da quella che - con malinconica monotonia - il centro-sinistra ripete dal 2001, e il Pd di Bersani continua meccanicamente a fare propria. Eppure, se quella diagnosi è giusta, se la maggior parte dei nostri mali discendono dalla disastrosa conduzione del governo da parte di Berlusconi e Tremonti, allora il problema numero uno dell’Italia è togliere il tappo del berlusconismo, e la linea sostanzialmente frontista di Bersani, alleanze le più larghe possibile per liberarci del tiranno, è la linea che logicamente ne consegue.

Ma se invece si ritiene che Bersani sbagli, allora forse bisogna avere il coraggio di riconoscere un’altra immagine dell’Italia, di esplicitare un’altra diagnosi dei nostri mali. Una diagnosi in cui, ad esempio, non si abbia timore di indicare i lussi che non possiamo più permetterci: andare in pensione a 60 anni, spendere 100 per servizi che potremmo produrre con 70, stabilizzare centinaia di migliaia di precari per mantenere il consenso politico ai governanti, di destra o di sinistra che siano. Il problema è che una diagnosi più realistica, che non riconducesse tutti i mali economico-sociali del Paese alla devastazione del berlusconismo, avrebbe sì il pregio di rendere evidente il semplicismo della linea attuale del Pd, ma renderebbe anche molto più difficile tenere unito il partito. Dopo vent’anni di analisi a senso unico, ci sono verità che al popolo di sinistra non si possono dire, e infatti non vengono dette. E ci sono terapie che si possono sussurrare nei seminari, nei convegni, nelle commissioni parlamentari, ma non si possono proporre nei comizi, nelle piazze, nelle feste di partito. Quali verità e quali terapie?

Ad esempio, che la spesa pubblica va ridotta ancora di più di quanto abbia fatto Tremonti, altrimenti non abbasseremo mai le tasse sui produttori. Che il lavoro che fanno Brunetta e Gelmini in materia di pubblico impiego può essere fatto meglio, forse molto meglio, ma comunque va fatto. Che il Mezzogiorno non può continuare ad assorbire risorse che non produce, se non altro perché i quattrini sono finiti. E che, sulla mafia, quel che ci auguriamo è che un futuro governo di centro-sinistra non faccia rimpiangere Maroni. (la Stampa)

1 commento:

Anonimo ha detto...

E 'vero! Penso che questo sia una buona idea. Pienamente d'accordo con lei.
E 'vero! L'idea di un buon supporto.