martedì 5 ottobre 2010

Le Sakineh che non vediamo in casa nostra. Lucetta Scaraffia

Ma quale «interazione tra culture»
Qui (in Italia) si tratta di salvare le donne

Mentre sui muri ci guardano ancora i manifesti di Sakineh da salvare, in cui una donna velata di nero con lo sguardo drammaticamente assorto ci ricorda il caso della donna che è stata condannata a morte in Iran, proprio qui in casa nostra, in un paese vicino a Modena, è stata uccisa con una pietra, cioè lapidata, una madre pakistana che difendeva la libertà della figlia. Libertà legittima di scegliersi il marito di fronte alla prepotenza del padre e dei fratelli che le volevano imporre - a sprangate - il loro candidato. È una coincidenza drammatica che fa riflettere: siamo pronti a scendere in piazza, a protestare, per una donna lontana, sicuramente bisognosa del nostro aiuto per scampare alla morte, ma anche, forse, colpevole di omicidio - è sotto processo per questo - e non vediamo quello che succede sotto i nostri occhi a povere donne innocenti.
Nessuna Carla Bruni si è mobilitata per stigmatizzare e cercar di fermare l’eccidio di donne immigrate che dal 2006 - quando è stata uccisa Hina Saleem a Brescia - sta insanguinando un paese libero e democratico dell’Occidente quale è il nostro. Nessuna manifestazione per far sentire alle comunità etniche che non vogliono rinunciare alle loro sanguinarie tradizioni la nostra disapprovazione, il nostro rifiuto di accogliere immigrati che non siano disposti ad abbandonare queste mentalità arretrate e violente.
Certo, i giornali danno la notizia in un profluvio di deprecazione, preoccupandosi comunque di far presente che non si tratta di tradizioni islamiche, ma legate a particolari gruppi etnici, come non fosse chiaro a tutti che, anche se si tratta di particolari etnie queste sono sempre, chissà come mai, musulmane. Ma poi il problema non viene ripreso e approfondito, non ci sono inchieste nelle enclaves di immigrati per capire la condizione delle donne. Quelle sono riservate ai luoghi lontani, come l’Iran.
Viene il sospetto che questo fare i paladini dei diritti umani da lontano, per poi chiudere gli occhi da vicino, sia una scelta un po’ vigliacca per pulirsi la coscienza pagando il prezzo più basso. È un atteggiamento che tradisce la paura per chi abbiamo accolto, fa capire che non vogliamo irritare con troppi controlli, e rivela come sia più facile far finta di non vedere, per poi riempirsi la bocca di parole come accoglienza e interculturalità, piuttosto che difendere le donne straniere che sono arrivate nella nostra terra. Meglio far bella figura con Sakineh che occuparsi seriamente delle bambine, figlie di immigrati islamici a cui, anche nel nostro paese, viene imposta la cloridectomia a un’età sempre più precoce per evitare ribellioni e denunce. Più facile - non costa niente - parlare di «interazione fra le culture», come scrive Repubblica a proposito di questo caso, piuttosto che obbligare i padri prepotenti a rispettare la libertà delle figlie: invece qui non si tratta proprio di un caso di interazione, ma di abbandono di una mentalità per acquisirne un’altra, la nostra. Invece i titoli che alludono a una necessità di cambiamento sono prudenti e molto soft: «Comunità chiuse e impermeabili dobbiamo aiutarle a cambiare regole» titolava sempre Repubblica, come se si trattasse di un paziente lavoro di convincimento a cui i maschi pachistani, o marocchini e indiani, sono pronti a prestare orecchio.
Si evita così di prendere atto sul serio di quello che succede anche da noi, perché questo farebbe crollare quel castello di carte che sono i miti di interculturalità, delle culture tutte sullo stesso piano, tutte egualmente degne di rispetto e di riconoscimento. Perché dovremmo dire che ci sono culture che difendono la dignità di tutti gli esseri umani, e altre che invece sanciscono l’inferiorità di alcuni, in genere le donne. Quindi che ci sono culture migliori di altre, culture da difendere e altre da combattere. E non solo regimi politici cattivi, come gli ayatollah iraniani, ma conflitti di valore in cui dobbiamo impegnarci per far vincere il bene. Solo in questo modo possiamo affrontare sul serio il problema dell’immigrazione, possiamo parlare di accoglienza senza fare della vuota retorica. E soprattutto lavorare concretamente per migliorare la condizione delle donne, che ne hanno molto bisogno. (il Riformista)

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