martedì 12 ottobre 2010

Tutta la verità del generale Mori. Lino Jannuzzi

Il generale Mario Mori mi ha regalato un dvd. L’ho messo nel computer, ma non ci ho capito niente, ballano lettere come serpenti, pizzini e papelli e contropapelli, ma non riesco a fermarli e ad afferrarli. Allora è venuto ad aiutarmi il generale in persona e mi ha ripetuto in privato la lezione che ha tenuto due settimane fa, il 19 settembre, nell’aula bunker di Palermo, con tanto di maxischermo e di proiettori, ai magistrati che lo stanno processando per mafia. Alla fine gli ho chiesto, stupito: ma come ha fatto a scoprire tutto questo, a riuscire a falsificare lei stesso i pizzini di Bernardo Provenzano e le lettere di Vito Ciancimino, per provare così che le poteva falsificare e le ha falsificate Massimo, il figlio di don Vito?. “Mi sono allenato per anni – mi ha risposto – sono vent’anni che mi processano…”. Vent’anni? Non mi pare… E’ solo al suo secondo processo, quello per il mancato arresto di Provenzano, e il primo, quello per la mancata perquisizione del covo di Totò Riina, è solo di tre o quattro anni fa… “Le prime insinuazioni dei giornali, sussurrate nei corridoi del palazzo di Giustizia di Palermo, sono del ’93 e del ’94, poco dopo che con il capitano ‘Ultimo’, Sergio Di Caprio, avevamo catturato il capo di Cosa nostra. E già parlavano di ‘trattativa’, che Riina ce l’avevano ‘consegnato’ in cambio dell’impunità per gli altri e dell’impegno a non perquisire subito il covo per non sequestrare i ‘documenti’ e i ‘papelli’. Sarebbero già sedici o diciassette anni prima della comparsa e delle comparsate di Massimo Ciancimino, dichiarante perpetuo. Ma il processo a me, ai miei colleghi, al Ros, ai carabinieri, è cominciato anche prima, è cominciato il 16 febbraio del 1991, vent’anni fa, quando consegnammo alla procura di Palermo il rapporto dell’inchiesta detta ‘mafia e appalti’…”. L’inchiesta mafia e appalti è diventata una leggenda. “E’ vero, una leggenda. Era solo il primo mattone, ma era una novità assoluta, il capitano Giuseppe De Donno, il principale collaboratore di Giovanni Falcone, che lo chiamava affettuosamente ‘Peppino’ e che era uno dei pochi investigatori che poteva permettersi di dargli del ‘tu’, e non si staccava mai da lui, che se lo portava appresso anche all’estero, in giro per il mondo, aveva fatto un ottimo lavoro e, avvalendosi delle confidenze di un geometra, Giuseppe Li Pera, che lavorava in Sicilia per la ‘Rizzani De Eccher’, una grossa azienda del nord, aveva ricostruito la mappa del malaffare tangentizio siciliano, la prima del genere e che anticipava di qualche anno la Tangentopoli nazionale”. Sul momento, non se ne accorse nessuno. “Se ne accorse Giovanni Falcone, che ci fece persino lo spunto per un convegno, che concluse col famoso annuncio: ‘La mafia è entrata in borsa’… E con quell’annuncio iniziò la sua fine, perché se ne accorsero gli interessati, le imprese, i mafiosi e i politici”.

Ma non successe niente. “La procura di Palermo non ci dette nemmeno le deleghe per proseguire le indagini e delle 44 posizioni che avevamo individuato emise solo cinque ordini di arresto, ma consegnò agli avvocati degli arrestati tutto il malloppo, tutte le 890 pagine del rapporto, con i nomi e i cognomi di tutti i 44 indiziati”. Seppero tutti subito… “E qualcuno aveva saputo anche da prima, come Angelo Siino, il cosiddetto ‘ministro dei Lavori pubblici’ di Cosa nostra, quello che si sedeva al ‘tavolino’ tra gli imprenditori e i politici per spuntare la quota di Cosa nostra”. Siino non era anche un informatore del capitano De Donno? “Siino trafficava anche con i carabinieri, ci passava qualche informazione… Ma quando seppe dell’inchiesta si precipitò dal maresciallo Guazzelli, che allora collaborava coi Ros del generale Subranni e che sarà ucciso poco dopo l’assassinio di Salvo Lima, per cercare di farla franca. Quando capì che non c’era niente da fare, vomitò in casa di Guazzelli, e finì tra gli arrestati, insieme con il geometra Li Pera. Ma De Donno fece in tempo a fargli confessare da chi aveva saputo dell’inchiesta…”. E cioè? “Siino raccontò a De Donno che le informazioni sull’inchiesta le aveva avute dalla procura, e fece anche i nomi…”. Successe il finimondo, e dalla procura querelarono De Donno. “Ma De Donno aveva le bobine registrate dei suoi colloqui con Siino e le portò alla procura di Caltanissetta…”. Ma alla procura di Palermo avevano le deposizioni di Siino, che dichiarava che erano stati i carabinieri a indurlo ad accusare i magistrati. “Una volta arrestato, Siino si era ‘pentito’, e come fanno spesso i ‘pentiti’ rovesciò la versione dei fatti…”. E come finì? “Apparentemente finì con un nulla di fatto, la procura di Caltanissetta archiviò sia le bobine di De Donno sia le dichiarazioni del ‘pentito’ Siino e archiviò la querela di De Donno e la querela di quelli della procura di Palermo. E fu allora che cominciò il processo a me e a De Donno e ai carabinieri. E, dopo l’assassinio di Lima, furono uccisi Guazzelli, Falcone e Borsellino, tutti quelli che avevano a che fare con l’inchiesta mafia e appalti…”. Perché anche Falcone e Borsellino?

“Falcone non smise mai di incoraggiare De Donno a continuare a indagare e, per giunta, si parlava di lui per la Superprocura, da dove avrebbe potuto ricominciare a indagare. Borsellino, dopo l’assassinio di Falcone, il 25 giugno del ’92, tre settimane prima di essere assassinato a sua volta, convocò me e De Donno in gran segreto, alla caserma Carini e non in procura, perché non si fidava dei suoi colleghi, e ci sollecitò a riprendere le indagini…”. Indagini che non sono state mai riprese. “Il 20 luglio del 1992, il giorno dopo la strage di via D’Amelio e la morte di Borsellino, la procura di Palermo chiese l’archiviazione dell’inchiesta mafia e appalti, e il 14 agosto il gip archiviò. L’indomani della strage di via D’Amelio e la vigilia del Ferragosto: non se n’è accorto nessuno… Archiviata l’inchiesta, invece di processare gli imprenditori, i mafiosi e i politici degli appalti truccati, è iniziato il processo contro i carabinieri… Prima il voltafaccia del ‘pentito’ Siino e la querela a De Donno, poi le accuse a me e a Di Caprio per il covo di Riina, quindi le accuse a me e al colonnello Mauro Obinu per la mancata cattura di Provenzano, fino al remake di Massimo Ciancimino che, pappagallo più dei pm che del padre, ha ripreso e rilanciato la storia della ‘trattativa’… tutti espedienti e pretesti, ma il filone è sempre lo stesso, i teoremi dei cosiddetti ‘sistemi criminali’ e della cosiddetta ‘trattativa’ tra lo stato e la mafia…”. Oltre che De Donno e lei e Di Caprio e Obinu, ci sono altri carabinieri finiti in questi anni nel mirino della procura di Palermo: il maresciallo Antonino Lombardo, comandante della stazione di Terrasini, il tenente Carmelo Canale, il capitano Carlo Giovanni Meli, comandante la stazione di Monreale, lo stesso generale Subranni, capo dei Ros prima di lei.

“Il maresciallo Lombardo si recò con Obinu negli Stati Uniti per convincere il boss Gaetano Badalamenti, che era in prigione, a venire a testimoniare in Italia al processo contro il presidente Andreotti, e lo convinsero, e Badalamenti sarebbe venuto a sconfessare Buscetta e le sue accuse a Andreotti: Lombardo fu infamato e si suicidò; suo cognato, il tenente Canale, che era il più fidato collaboratore di Borsellino, denunciò le trame contro Lombardo, inventate per impedirgli di andare in America a prendere Badalamenti, e subito spuntarono sei ‘pentiti’ che lo accusarono di connivenze con la mafia, Canale è stato processato per sette anni, ma è finito assolto con formula piena. Il colonnello Meli scoprì, intercettando le sue telefonate, che il mafioso ‘pentito’ Balduccio Di Maggio, quello famoso per il bacio tra Andreotti e Riina, era tornato in Sicilia a mafiare e a uccidere, e fu accusato di averlo fatto per tramare contro la procura. Subranni è stato sempre informato delle iniziative mie e di De Donno e ci ha sempre difeso, e solo per questo è finto indagato…”. Si potrebbe dire che prima la mafia uccideva i carabinieri e i magistrati e i politici e che, dopo il 1992, da diciotto anni, la mafia non li uccide più, ma è l’antimafia che li inquisisce e li processa… E inquisisce e processa non solo i carabinieri, e così tanti carabinieri, ma anche i poliziotti, sono stati processati e condannati due famosi poliziotti, Contrada e D’Antone, e sono stati processati magistrati come Corrado Carnevale, poi assolto, e politici come Andreotti e Mannino, anche loro assolti alla fine, Mannino dopo diciassette anni… La mafia li uccideva, l’antimafia li processa. Che cosa è, una maledizione, un paradosso, una nemesi? “Al processo Contrada ho deposto in sua difesa, le indagini dei processi ai poliziotti, ai magistrati e ai politici sono state per lo più affidate non ai carabinieri del Ros, ma alla Dia…”. Quella che Francesco Cossiga ha definito “una polizia politica degna della Stasi e della Ghepeù”. “Non tocca a me dare giudizi sulle indagini della Dia e degli altri corpi dello stato, e nemmeno sui teoremi e sugli altri processi della procura di Palermo…”. E questo suo ultimo processo, come finirà? “Non può che finire come gli altri… Ho appena dimostrato che i famosi documenti prodotti in abbondanza e a rate da Massimo Ciancimino sono facilmente falsificabili e molti sono sono stati falsificati, come quello indirizzato ‘per conoscenza’ al presidente del Consiglio Silvio Berlusconi, e che dovrebbe provare i rapporti tra Cosa nostra e la nascita di Forza Italia, e che è stato prodotto in fotocopia, proprio per incollarvi sopra l’indirizzo a Berlusconi… Questi famosi documenti sono quasi tutti in fotocopia, compresi i pizzini di Provenzano e il famoso ‘papello’… Del resto, anche i periti della procura, che hanno comparato i documenti prodotti da Massimo Ciancimino con la scrittura di tutti i boss più conosciuti, da Riina a Provenzano a Lo Piccolo a Brusca e a 47 altri di Cosa nostra, hanno concluso che non sono ascrivibili a nessuno di loro, e che anche i pizzini attribuiti a Provenzano non risultano in battuta originale, e la macchina per scrivere con cui sono stati battuti, un’unica macchina per scrivere, non è riconducibile a nessuna delle macchine per scrivere utilizzate per redigere i documenti dattiloscritti sicuramente da Provenzano…”. Se è così, si è trattato di un’operazione sciocca e puerile quanto azzardata e provocatoria… A Palermo lei ha citato il famoso personaggio del romanzo di Jaroslaw Hasek, “Il buon soldato Sc’vèik”, e ha parlato di un “ebete notorio” che si aggira nell’aula bunker. Si riferiva evidentemente a Massimo Ciancimino, e ai guai che è capace di combinare. “Solo un personaggio come il buon soldato Sc’vèik può pensare di di essere creduto esibendo documenti contraffatti in maniera così rozza e scoperta…”.

E Spatuzza… Anche Spatuzza non è credibile? “Spatuzza è un testimonio a nostro favore… per molte ragioni, ma basterebbe la sua dichiarazione, certa e documentata, che egli fu incaricato di procurare il tritolo per la strage di via D’Amelio unitamente e contemporaneamente al tritolo che servì per la strage di Capaci, il che prova che Cosa nostra aveva deciso fin dall’inizio di uccidere Borsellino come Falcone, e liquida definitivamente il teorema della procura che la decisione di uccidere Borsellino sarebbe stata presa solo successivamente e sarebbe stata presa perché Borsellino avrebbe scoperto della nostra presunta ‘trattativa’ con Cosa nostra e vi si sarebbe opposto… Quello che Spatuzza ha detto di vero, e ha inequivocabilmente provato, è che fu lui a rubare l’auto che servì per la strage di via D’Amelio e che, di conseguenza, tutti i processi e le condanne inflitte per quella strage sono sbagliati… E’ di questo che bisognerebbe parlare e bisognerebbe indagare sulle responsabilità di quelle indagini e di quei processi e bisognerebbe processare i responsabili invece di processare i carabinieri, ma è anche per non farne parlare o farne parlare il meno possibile e distogliere l’attenzione, che si parla solo e sempre della presunta ‘trattativa’e si processano i carabinieri…”. C’è da sperare che lo faranno e indagheranno su chi e perché ha depistato le indagini e i processi su via D’Amelio quando anche quest’ultimo processo ai carabinieri sarà finito. “Finirà anche questo processo come gli altri, ma non finirà la guerra della procura di Palermo ai carabinieri… sta già per cominciarne un altro processo…”. Un altro? Come sarebbe? “Il capitano De Donno ha ricevuto un avviso di reato ai sensi dell’articolo 338”. E’ una storia poco conosciuta. “De Donno non ha nemmeno risposto, come era suo diritto, e non ha fatto dichiarazioni… E’ un avviso di reato per ‘minaccia a corpo politico-amministrativo o giudiziario’…”. Che roba è? “È un reato previsto dal codice nel 1936, settantaquattro anni fa, in piena era fascista, e che in settantaquattro anni è stato contestato una sola volta, e quella volta è finito nel nulla… ma si sa che è un reato che prevede l’associazione a delinquere, e deve essere contestato almeno a tre soggetti… si prevede che saremo avvisati in una decina… Un altro pretesto, questa volta ancora più misterioso, per ricominciare e continuare…”. Mi pare di aver sentito che anche Riina, Provenzano e Tanino Cinà sono citati in vostra compagnia, con questo curioso strumento giudiziario. Auguri, signor generale. (il Velino)

2 commenti:

Anonimo ha detto...

Anch'io avevo notato questo bellissimo articolo.
Trovi molto sull'argomento qui:

http://segugio.splinder.com/

Luigi

maurom ha detto...

Grazie Luigi per il gradito suggerimento.