venerdì 19 novembre 2010

Piagnistei e tagli alla cultura. Davide Giacalone

Le proteste per i “tagli alla cultura” sono commoventi, una rivolta che sembra talmente giusta da essere sbagliata. I governati attuali sono trattati da buzzurri affamatori, da volgari ignoranti. “La cultura non si mangia” dicono abbia detto Giulio Tremonti. Non è molto interessante sapere se l’ha detto o solo pensato, è più rilevante accertare che non siano in troppi a mangiarci. Quindi, stabiliamolo subito: la cultura è una bellissima cosa, ma se invento un capitolo della spesa pubblica, lo intitolo alla pace e alla bontà nel mondo, poi ci butto dentro una valanga di soldi del contribuente, al momento in cui qualcuno mi ferma e mi butta fuori, tagliando quella spesa, non è che sia un nemico della pace e della bontà, ma solo una persona ragionevole.

Sempre per capirsi: “cultura” non significa un accidente. Ci sono i siti archeologici, come Pomepi, che andrebbero gestiti come miniere d’oro e, invece, sono pozzi senza fondo, per giunta in disfacimento. Non si tratta di aumentare la spesa, né di cavarsela con una (pretestuosa) mozione di sfiducia al ministro del momento: il disastro va avanti da decenni. A Pompei e altrove. Deve cambiare il modello: tutela pubblica e gestione privata. Il mercato difenderà e valorizzerà la nostra archeologia assai meglio della burocrazia ministeriale. Quindi non si deve spendere di più, si devono chiamare investimenti e offrire opportunità.

Poi c’è la lirica. Uno straordinario patrimonio italiano, le uniche cose che il mondo canta usando la nostra lingua. Ma guardate un po’: più ci metti soldi pubblici e più l’arte scompare, più si punta al profitto, come i “tre tenori”, più l’arte entra nei salotti e nei vicoli. Lo Stato può fare molto, prima di tutto nella formazione. Fra qualche anno i pianisti saranno cinesi, mentre gli interpreti italiani campano di sussidi e lezioni private (in nero). Formazione, allora, e selezione meritocratica. Stesso discorso per i teatri: fino a quando si potrà sostenere che il cittadino che prende parte alla prima teatrale, sfoggiando la pelliccia quando fa un caldo boia, deve essere finanziato da quello che si sgola tifando allo stadio? Questo accade, oggi. Conosco la risposta: sei una bestia, il teatro è cultura. Dipende, scusate. Vanno in scena boiate assurde, recitate da cani. Usiamo criteri diversi: formazione per evitare che il “grande fratello” sia l’unico linguaggio comune e premi a chi attira il pubblico. Spazio ai giovani attori, mettendoli alla prova del mercato. Così si premia il successo, dicono. Perché, sarebbe invece saggio, a spese del pagatore di tasse, premiare l’insuccesso?

E veniamo al cinema, di cui sempre si parla perché è lì che vivono le star, i divi e le dive, la più grande accolita di ricchi manifestanti che si sia mai vista. Il cinema è un’industria, che non solo produce reddito, ma anche il valore aggiunto dell’immagine italiana nel mondo. Che sia benedetto. Come il resto dell’industria italiana s’era assuefatto alle sovvenzioni pubbliche e al protezionismo (addirittura divenuto legge), perdendo in qualità e competitività. Anche nel cinema si sono socializzate le perdite e privatizzati i guadagni, per giunta creando una genia di ricchi piagnoni. I soldi elargiti ai film di “alto valore culturale” sono un veleno ridicolo e fazioso: amministrati nel disprezzo del pubblico (vale a dire di quelli che scuciono) e spartiti secondo logiche che hanno a che vedere con la cultura, ma delle clientele, delle amicizie, delle camarille e della solidarietà fra falliti. Se li tagliamo non facciamo un soldo di danno.

Come il resto dell’industria, però, il cinema deve essere sospinto con norme che agevolano il mercato, l’innovazione, la produzione: defiscalizzazione degli utili reinvestiti, credito d’imposta, fiscalità di vantaggio per quelle località che vogliano attirare investimenti nel settore (è così che è nata Hollywood, soppiantando New York). Poi, considerato il valore aggiunto immateriale, si può aggiungere un premio al botteghino: chi più incassa più riceve. Scontata l’obiezione: così vince solo il cinepanettone. A parte la spocchia falso culturale, avverto che la platea non popolata da scemi: se i cinepanettone diventano troppi il pubblico ne condanna alcuni, ed è giusto che chi li produce ci rimetta. Come, del resto, il pubblico premia anche gioielli ben fatti e non banali. Il guaio è che ogni autore di mattonate vorrebbe passare per virtuoso della cinepresa. Bravo, continui, ma io non gli finanzio neanche l’autoscatto.

Morale: è bene spendere in cultura, ma è male buttar soldi nella curtura del conformismo esibizionista e autocompatente. Il tutto, tenendo presente che siamo il Paese con il più grande debito europeo, secondo, in percentuale sul pil, solo alla Grecia, e siamo costretti alla virtù del deficit basso. Sicché i manifestanti contro i tagli dovrebbero avere l’amabilità d’indicare chi paga o dove maggiormente si taglia, senza cadere nella stupidaggine di additare le “auto blu”. Battuta buona, questa, per il cinepanettone.

1 commento:

Anonimo ha detto...

Premesso che non amo la lirica (pero' vorrei andare a teatro piu' spesso) temo che argomentare che il calcio allo stadio non sia finanziato e' un colossale errore.
Abito in una citta' di provincia, la nostra squadra e' perennemente in bassa classifica ma ogni domenica centinaia di poliziotti e vigili e carabinieri sono mobilitati. Tutto si blocca per "colpa" di 50 o 60 scalmanati. Per non parlare di ambulanze mobilitate, treni speciali, autobus gratis, e per tacere di quelle volte che va male e ci scappa qualche auto sfasciata.
Direi che si presta molta ma molta ma molta piu' attenzione al calcio che alla lirica nel nostro Paese.