martedì 30 novembre 2010

Teoremi mafiosi. Davide Giacalone

Ci sono dettagli che illuminano l’insieme. Notizie rimpiattate che dicono più dei titoloni urlanti. A saper leggere, però. Molti credono che l’intreccio fra mafia e politica sia una partita del passato, invece deve ancora essere giocata. Il terreno è quello del processo a Mario Mori, carabiniere, ex comandante del Ros. In quel dibattimento passerà la nostra storia recente, compreso l’atto di nascita della così detta seconda Repubblica.

Ecco alcuni dettagli. Primo: se un qualsiasi macellaio di mafia racconta di aver saputo, dal fratello del suo capo, che il cugino della cognata è stato a colloquio con lo zio di un collaboratore di Silvio Berlusconi, il quale gli ha detto che presto lo nominerà capo dell’Europa, la cosa finisce su tutti i giornali (ed è naturale), nonché al centro di un’indagine che dura venti anni; se, invece, un carabiniere, che arrestò Totò Riina, sostiene che le accuse di cui è fatto bersaglio sono una vendetta dei corleonesi, e dice che ascoltando il pubblico ministero sente parlare il boss mafioso, la notizia raggiunge pochissimi e viene subito dimenticata. Secondo: se lo stesso carabiniere, Ultimo, al secolo Sergio De Caprio (mi scuso per un precedente errore, meramente materiale), dice che “più vedo Ingroia e più capisco la grandezza di Borsellino. Gente come lui e la lobby mediatica che lo sostiene hanno distrutto l’antimafia”, ancora una volta finisce in due righe. Antonio Ingroia è lo stesso pm di cui sopra. Terzo: scrivendo un libro Ingroia mette in dubbio l’assoluzione di un altro carabiniere, Carmelo Canale, braccio destro di Borsellino, sostenendo cose che aveva taciuto al processo, quando era stato chiamato come testimone. Anche in questo caso, non succede niente. Per giunta, Canale sarà presto sul banco dei testimoni, al processo Mori. Quarto: Mario Mori sostiene che il suo calvario giudiziario è iniziato quando la procura di Palermo affondò il rapporto “mafia-appalti”, voluto da Falcone e Borsellino. Neanche questa volta succede niente.

Sono convinto che molti non colgono la terribile gravità di tutto ciò, perché non hanno un “teorema” con cui tradurre segnali che non capiscono. E’ vero, ha ragione Pierluigi Battista (Corriere della Sera del 26 novembre), la deposizione del ministro Giovanni Conso, l’avere saputo che il carcere duro (41 bis) fu cancellato dal governo Ciampi, nel 1993, demolisce il teorema della trattativa posticipata, ma sbaglia a non accorgersi che noi lo scriviamo da anni, naturalmente silenziati e minacciati di querela. Degli schieramenti non m’importa un fico secco, ma osservo che, puntualmente, si cerca di buttarla in caciara.

Mori è sotto processo perché sarebbe stato il tramite di una trattativa. Lo sostiene Massimo Ciancimino, assieme ad un altro cumulo di corbellerie. Secondo Luciano Violante lo stesso Mori gli fece presente, quando era presidente della commissione antimafia (1992-1994), che Vito Ciancimino era pronto a collaborare. Se ne è ricordato, Violante, solo nell’agosto del 2009, precipitandosi a Palermo per raccontarlo alla procura. C’è un solo italiano disposto a credere che, nel mentre era il potente presidente della commissione antimafia, Violante non abbia saputo che ai mafiosi era stato revocato il carcere duro? Eppure tacque. Singolare, anche perché Mori ricorda le cose in modo diverso.

Ora, posto che chi chiede spiegazioni facili ha sbagliato tema, provo a fornire elementi utili per la lettura. A. Non credo alla “trattativa”, ma un canale di comunicazione ci fu. Il buon Conso può pure credere di avere deciso da solo, ma stia sicuro che, come su altre faccende, lo avrebbero sbugiardato in tempo reale se quella decisione non fosse stata condivisa. B. La guida di Violante dell’antimafia privilegiò i processi politici rispetto alle indagini sui canali di riciclaggio e il coinvolgimento d’imprese non sicule. Preferì guardare alla politica in visita a Palermo piuttosto che ai soldi mafiosi diffusi per il mondo. C. Contro questa scelta era Giovanni Falcone, che, difatti, fu combattuto da Violante e da altri esponenti della sinistra, come Elena Paciotti, esponente di Magistratura Democratica e poi segretario dell’Associazione Nazionale Magistrati (infine parlamentare per il partito di Violante). Per non dire di Leoluca Orlando Cascio, che lo accusò di complicità con la mafia, cosa che ripeté del carabiniere Antonino Lombardo, che ci lasciò la vita. D. Contro fu anche Paolo Borsellino, che sollecitò le conclusioni del rapporto mafia-appalti. Tutti e due furono isolati dalla politica (compresa quella vile che non li difese), sconfitti dai magistrati e ammazzati dalla mafia. E. La mitologia successiva vuole che tutto questo non sia mai esistito, ma che la storia s’incardini solo sulle responsabilità di chi, al momento delle decisioni più rilevanti, aveva perso il potere o non lo aveva ancora avuto. F. Infine: per sostenere questa tesi dissennata, questo “teorema”, che fa a cazzotti con le date e con i fatti, si deve togliere credibilità a chi lavorò con Falcone e Borsellino.

Aprite gli occhi, perché attorno al processo Mori balla la nostra storia recente, quella che ancora dura.

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