martedì 26 aprile 2011

La truffa Ciancimino.Ecco tutti i complici del grande imbroglio. Giuliano Ferrara

Solo con la voluttà della calunnia, e con il corri­spondente piacere del­la giustizia politica, può spiegarsi l’infame sto­riaccia di Massimo Ciancimi­no e dei suoi bardi. Arrestato per calunnia e truffa pluriag­gravata, il figlio del corleone­se don Vito da quasi tre anni pontificava con il bollo della Procura di Palermo, del suo numero due, il dottor Anto­nio Ingroia, il magistrato che fa comizi in piazza contro le leggi all’esame del parlamen­to, il professionista dell’anti­mafia che ha la libido da con­vegno, da manifesto politico­ideologico, e che usa il suo de­­licatissimo potere d’indagine e di ac­cusa mescolando­lo con un attivismo politico fazioso in forma incompati­bile con la Costitu­zione e la legge del­la Repubblica.

(Il caso Lassini, al confronto, fa sor­ridere, e bisognerà pure che Milano torni ad essere una capitale della liber­tà, capace di ribel­larsi contro l’oscurantismo borbonico di una giustizia piegata a servire le traversie della politica politicante. Ca­ro sindaco Moratti, lei fa be­nissimo a impegnarsi per una competizione in cui il vol­to moderato e ragionevole della sua maggioranza emer­ga contro ogni manipolazio­­ne interessata, ma mi aspetto da lei e dalla borghesia colta che la sua maggioranza rap­presenta una parola chiara su una grande questione mi­lanese e nazionale: lo strame che si fa della giustizia).

Massimo Ciancimino non è un pentito, non rientra nel­l­a controversa categoria di co­loro che pretendono di aver aiutato a fare giustizia con ri­velazioni in qualche modo ri­scontrate e capaci di mettere in scacco la delinquenza or­ganizzata di tipo mafioso. È invece un teste d’accusa sul­la cui attendibilità, in modi azzardati e avventurosi, alcu­ni Pm diretti da Ingroia han­no fatto la scommessa della loro vita professionale, por­tandolo per mano nel circui­to mediatico-giudiziario, con l’aiuto di Michele Santo­r­o e altri professionisti dell’in­formazione obliqua, insi­nuante, della macchina del fango (come impudentemen­te dicono, per ritagliarla sugli altri), dentro una narrazione calunniosa che ha investito lo Stato, i governanti, la politi­ca e infine il capo e coordina­tor­e dei servizi di si­curezza e di infor­mazione sui quali si fonda la credibi­lità degli apparati della forza e del­l’ordine repubbli­cano. Sotto scorta e as­sistito dai suoi di­rettori spirituali e giudiziari, per me­si e mesi il figlio di don Vito ha infan­gato Berlusconi, presidente del Consiglio; il senatore Del­­l’Utri, uno che sta per pagare con molti anni di galera la tra­sformazione calunniosa del­le sue amicizie controverse in un reato penale da Paese borbonico (concorso ester­no in mafia); Nicola Manci­no, già presidente del Senato e ministro dell’Interno e vice­presidente del Consiglio su­periore della magistratura; Giovanni Conso, giurista e già ministro di Grazia e Giu­stizia; il generale Mario Mori, l’eroe italiano che arrestò il capo della mafia; infine il pre­fetto De Gennaro, per anni ca­po della polizia, un uomo che ha lavorato contro la mafia con Falcone in modi contro­versi ma efficienti, e che ora fa parte, agli occhi dei suoi ne­mici, di un odiato apparato di governo della Repubbli­ca. E molti altri, secondo le convenienze d’occasione. Serve un colpetto al grup­po dei deputati che è entrato a far corpo con la maggioranza politica che gover­na il Paese? Ecco una propalazione pronta sul ministro appena nominato Saverio Romano, da tredici anni sotto in­dagine per mafia e da tenere ancora sul­la graticola anche grazie alle parole va­ghe, generiche ma velenose e insultanti e infanganti del ventriloquo di un padre morto da anni, che fa parlare al cospetto della giustizia i fantasmi della passione politica faziosa, al servizio di chi non si sa, ma per mezzo di quali avalli giudizia­ri e mediatici lo si sa benissimo. Il dottor Ingroia è arrivato alla delicatezza lettera­ria di scrivere la prefazione al libro di ca­lunnie del figlio di don Vito. Se una peri­zia non a­vesse svelato il carattere truffal­dino di questa testimonianza, chissà do­ve sarebbe arrivato il terzetto Ciancimi­no- Ingroia-Santoro. Questo tizio che ora è in carcere per calunnia e truffa, per aver fatto operazi­o­ni di copia e incolla su vecchi documen­ti fotocopiati per incastrare chi-sa-lui con il bollo della giustizia, è già finito a pagina 21 di Repubblica e a pagina 27 del Corriere della Sera. L’insabbiamento del caso è già in pieno corso. I giornalisti giudiziari che hanno usato le sue carte false, e accompagnato con la loro opero­sa attività cronistica la scandalosa pro­mozione del suo ruolo di «icona dell’antimafia », hanno già girato la frittata, prendendoci tutti per rimbecilliti, pri­ma di tutto i lettori dei loro riveriti giorna­li. Secondo loro quell’arresto non dimo­stra l’esistenza di una cospirazione poli­tico­ giudiziaria che si chiama appunto calunnia contro uomini pubblici decisi­vi della nostra vita democratica, no, c’è un puparo ignoto dietro la calunnia e adesso gli stessi magistrati che hanno ac­cudito il pupo dovranno eroicamente dare la caccia al puparo. Un nuovo mi­stero, nuovo fango che avanza, nuova in­giustizia. Ora basta. Se nessuno tra coloro che hanno autorità per farlo si muovesse, se il ministro Alfano, il vicepresidente del Csm Vietti, il capo dello Stato, non sen­tissero il dovere civile di accertare che cosa è accaduto, sotto il travestimento ridicolo dell’obbligatorietà dell’azione penale, se nulla di serio e di liberale e di garantista dovesse accadere nei prossi­mi giorni, l’anarchia già in fase avanzata in cui vive questo Paese straziato da un ventennio di uso politico della giustizia diverrebbe un’esondazione di colpe in­crociate, il fomite di una generale delegittimazione. E chi ama la Repubblica non può stare a guardare senza fare nul­la. Ci sono forze ancora grandi e limpide capaci di reagire in modo serio, respon­sabile, equilibrato, trovando le parole giuste per dire lo scandalo più grave, in materia di stato di diritto e di regolare funzionamento delle istituzioni, da vent’anni a questa parte? Quando un magistrato avalla una cospirazione ca­lunniosa contro i capi del governo, i par­lamentari, i generali dei carabinieri, i ca­pi dei servizi segreti, i vicepresidenti del Csm, che cosa si deve fare? Starsene a braccia conserte? Godersi lo spettacolo voluttuoso della calunnia di Stato e aspettare che chi l’ha consentita faccia giustizia? Che cosa aspettiamo a tirare fuori l’articolo 289 del codice penale,«at­tentato a organi costituzionali», che pu­nisce con dieci anni di galera chi cospira contro lo Stato? (il Giornale)

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