giovedì 23 febbraio 2012

Guardonismo fiscale. Davide Giacalone

Ora che i redditi dei ministri sono stati pubblicati cerchiamo di capire la differenza che passa fra la trasparenza e il guardonismo fiscale. Posto che quello praticato in Italia è un esercizio che rientra nella seconda categoria: si compongono le liste, si stilano le classifiche, si sbircia per sapere quanto è ricco questo o quello. Funziona così per i ministri, come per i parlamentari. Ma, appunto, non funziona. Non serve a niente. Mero esercizio d’inutile curiosità. Espletato il compito ci si sente più leggeri, si proclama l’avvento dell’onesta visibilità, s’inneggia ai nuovi costumi. Invece non è cambiato un bel niente.

Prendete le dichiarazioni diramate ieri: ce ne fossero due compitate con il medesimo criterio! Ciascuno mette quello che gli pare: alcuni i redditi dell’anno scorso, altri quelli di quello in corso, altri del prossimo. Che ci si fa, con roba simile? E la responsabilità dell’inconcludenza non è di questi ministri, cui, semmai, va riconosciuta la buona volontà. Ma la trasparenza di un Paese non può dipendere dalla buona volontà. C’è un vizio culturale di fondo: si raccontano le storie personali come se il pubblico fosse una giuria penale, si raccolgo i redditi e i patrimoni come se chi li legge dovesse vestire i panni del giudice tributario. Si aggiunge che la ricchezza non è una colpa, laddove dovrebbe essere un merito. Il tutto senza alcuna attenzione a come si dovrebbero aggregare, pubblicare e utilizzare quei dati, quindi senza alcun rispetto per la trasparenza che aiuta la democrazia.

Perché è interessante sapere come e di cosa vive chi governa e chi legifera? Perché è rilevante conoscere i suoi interessi e quelli con i quali è giunto in contatto. E’ rilevante sapere se (è un’ipotesi) il nuovo ministro della difesa ha lavorato con chi fabbrica armi, e non perché sia positivo o negativo in sé, ma perché è giusto conoscere il retroterra delle scelte che saranno fatte. Non serve a nulla sapere quanto Tizio ha guadagnato l’anno scorso, ma è interessante sapere come si sono evoluti i suoi redditi negli ultimi dieci anni (perché se l’ultimo la sua ricchezza s’è moltiplicata, o improvvisamente annientata, se ne può ragionare circa gli interessi o i trucchi con i quali si è avvicinato all’incarico pubblico). Anche qui, non perché ci sia qualche cosa di male, ma perché è bene sapere. La funzione di quei dati non è inquisitoria, ma al servizio della pubblica consapevolezza.

Il giudizio che compete al cittadino è quello elettorale. Se le persone di cui si pubblicano i redditi non si sono mai candidate o non intendono farlo, a che scopo gira l’informazione? E’ evidente che se c’è qualche cosa di sospetto l’accertamento non deve essere fatto al bar, né la democrazia ci guadagna continuando ad alimentare le letterature castali e il diffondersi dei refoli calunniosi. Faccio osservare che gli scandali, o presunti tali, non originano mai da quei dati, ma nascono prima o, comunque, indipendentemente. Ed è bene così (meglio sarebbe non averne, ma è impossibile), perché ciò che si fornisce al pubblico non sono indizi di reato, ma strumenti di conoscenza.

Il reddito di un anno e il patrimonio fotografato ad un determinato istante, non è uno strumento di conoscenza. Alimenta il guardonismo, il gusto morboso di spiare la fortuna altrui (talora coltivando l’invidia, quindi la rabbia, talaltra la devota ammirazione, due sentimenti egualmente animali). Se poi, per giunta, i dati sono disomogenei e affidati alla fantasia di ciascuno (mi spiegate come si fa ad accertare la veridicità di un reddito futuro?), allora siamo al gargarismo.

Vediamo il lato positivo: si è affermato un costume. Sia reso merito al governo Monti. Adesso, però, si cerchi di dargli un minimo di razionalità e funzionalità. Ho una proposta: chi accetta incarichi pubblici accetta anche la pubblicazione delle proprie dichiarazioni nel quinquennio o decennio precedente, depurate dei dati strettamente personali (esempio: figli a carico). Chi ha da temere, se ne stia a casa.

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