giovedì 26 settembre 2013

Telecommedianti. Davide Giacalone


La politica affronta il caso Telecom Italia come un formicaio cui è stato dato un calcio: corrono all’impazzata da tutte le parti. Con una differenza: le formiche sanno quel che stanno facendo, la politica teme che si sappia quel che hanno fatto. Ieri Franco Bernabè, amministratore delegato di TI, ha detto ai senatori che lo ascoltavano: ho saputo dalla stampa di essere diventato spagnolo. Non ci crede nessuno. In realtà sta dicendo: sono mesi che, anche solo leggendo la stampa, si sa come sarebbe andata a finire, visto che i soci italiani di Telco (la finanziaria che controlla TI) volevano andare via. Infatti ha aggiunto che se si voleva fare qualche cosa si doveva farlo prima. Vediamo, allora, cosa si deve fare. Poi passiamo alle castronerie che ci tocca leggere.

Dicono dal governo (Letta, Catricalà, Lupi e compagnia lagnante): chiediamo garanzie sull’occupazione e la rete. Sbagliato. L’occupazione non è una variabile indipendente dal mercato, un’azienda che funziona ha i lavoratori che servono. Se ne ha uno in meno perde occasioni di mercato, se ne ha uno in più perde soldi. I signori che parlano di occupazione senza badare alla produttività, politici e sindacalisti in testa, sono i responsabili del continuo crollo italiano. Aumentando i disoccupati. Chi parla in questi termini ha in testa il modello delle partecipazioni statali, ditegli di smettere, perché impoverisce anche voi. In quanto alla rete, vorrei sapere: hanno in mente un esproprio proletario, contro tutte le norme europee, o pensano, come pare, di portare i soldi della Cassa depositi e prestiti, quindi dei cittadini italiani, alla Telefonica spagnola? La rete di Telecom è vecchia perché l’attuale management non ha investito, e non lo ha fatto perché non avevano i soldi, né alcuna autorità di garanzia o indirizzo governativo li spingeva in tal senso. Prendersela ora significa non solo pagarla, ma pagarne il ritardo tecnologico. Un affarone che dovrebbero fare con i soldi loro, non con i nostri. Chi piange sulla rete non distingue le telecomunicazioni dalla pesca.

C’è un solo lato positivo, in tutta questa faccenda, e sta nella possibilità che lo Stato torni a fare il suo mestiere, consistente nell’indirizzo e nel controllo. Gli strumenti ci sono. Se, invece, continuiamo ad avere controllori statali che operano su aziende statali va a finire che il controllato controlla il controllore. Ed è questa la grande piaga nostrana (Rai, Poste, Ferrovie etc.). Gli operatori di telecomunicazioni agiscono in regime di autorizzazione, che può essere legata a obiettivi d’investimento. Questa è la retta via. L’altra serve solo a comprare il silenzio dei sindacati e a mantenere un mercato per i fornitori amici. La via maestra verso la fame.

Ora cinque puntualizzazioni, perché a tutto c’è un limite. 1. Telecom non è svenduta oggi, ma quando si è consentito, nel 1999, di scalarla a spese di Telecom. In quel momento si è trasformata una grande multinazionale in un generatore di debiti per portare fuori ricchezza. 2. L’italianità di Telecom non si perde oggi, ma sempre nel 1999, quando a Roberto Colaninno si permise di usare una società lussemburghese, la Bell. Compiacente il governo, presieduto da Massimo D’Alema, il controllo andò all’estero. E anche i soldi, tanto che i capi delle cooperative rosse, Consorte e Sacchetti, poterono accumulare un tesoro personale, che poi fecero rientrare (in tutto o in parte, non so) con lo scudo fiscale. Ancora oggi non sappiamo chi altri portò via soldi della società. 3. Semmai tornò italiana quando (2001) il controllo fu acquistato da Olimpia, di Marco Tronchetti Provera. Che riprese a investire nella rete, salvo portare via gli immobili (destinati a Pirelli Real Estate). Lo stesso Tronchetti aumentò il debito, per portare Tim dentro la pancia di Telecom, in modo da avere denaro per tenersi in equilibrio. 4. Tutto questo si fece tradendo la Borsa e le norme, con la complicità della Consob, allora presieduta dal compianto Luigi Spaventa, poi parlamentare della sinistra. 5. Tale forma di capitalismo relazionale, che sarebbe meglio definire inciucismo miserabile, ha trionfato con l’arrivo di Banca Intesa, Mediobanca e Generali nella proprietà di Telco, dove Telefonica si trova, quale primo azionista e unico socio operativo, dal 2007. Un’operazione “di sistema” che oggi è una disfatta di sistema.

Un’operazione covata nel mondo della sinistra, che si riempie la bocca di mercato e le tasche di mercanteggiamenti. La destra non ha colpe? Enormi: Silvio Berlusconi ha pensato che fosse possibile lasciare che gli altri facessero gli affari loro, mentre lui faceva i propri. Il risultato lo vedete: lui si accinge alla galera, gli altri a farlo decadere dal seggio senatoriale.

Anche Enrico Letta dice: nessuno ci ha informati. Cerchino di non rendersi ridicoli: scriviamo dal 2007 che Telecom sarebbe finita agli spagnoli. Solo che al traguardo si arriva con le due società di telecomunicazioni più indebitate d’Europa, e con una soluzione che serve esclusivamente a tutelare le banche che hanno così malamente impiegato i soldi dei risparmiatori. Talché suppongo che la storia non finisca qui, e che se qualcuno vuol portare via la baracca, posseduta da poteri deboli e oberata da debito alto, non ha che da mettere i soldi sul tavolo. Quel giorno vedremo il formicaio agitarsi ancora, magari rimpiangendo il socio concittadino dell’Unione europea.

Pubblicato da Libero

Nessun commento: