martedì 1 ottobre 2013

Il cappio. Davide Giacalone


Erano tutti pronti a commentare la drammatica crescita dello spread. Hanno iniziato la mattina, convinti di potere pubblicare oggi (martedì) l’articolo scritto domenica. Si dava per scontato che tutta la colpa era della crisi. E invece che fa, il dispettoso spread? Sale, poi scende, poi resta a marinare. Ancora una volta sono rimasti con la gamba alzata, la lancia brandita e il gonnellino di paglia scomposto. Ancora una volta gli adoratori dello spread hanno dovuto prendere atto che il loro dio non si cura delle loro danze. Balla ad altre musiche, in sincrono con vicende continentali, non con baruffe rionali. Dovrebbero guardare lo spread dello spread, in particolare il rapporto con quello spagnolo. E’ lì la spia del problema.

Pericolo scampato? Neanche per idea. Il pericolo è enorme. Intatto. Ma non nel posto dove credono che sia. Quello Letta è l’ennesimo governo che s’impicca, e si lascia impiccare, ai parametri bilancistici. Il chiodo cui hanno attaccato la corda, questa volta, è il 3%. Limite al deficit sul prodotto interno lordo. Già il solo pendere da quel chiodo è un affronto alla ragionevolezza, perché su quel punto siamo fra i primi, e forse i primi della classe: dal 1995 a oggi, con la sola eccezione del 2009, gli unici in costante avanzo primario; in questi anni gli unici ad avere pagato la metà degli interessi sul debito con soldi dell’avanzo, mentre tedeschi e francesi, giusto per usare due riferimenti, hanno pagato tutto creando nuovo debito. C’impiccano ad una forca che dovrebbe essere un podio. Perché?

Intanto perché abbiamo una classe dirigente imbarazzante. Inutile cercare il modo elegante per dirlo: non sono all’altezza. Poi perché abbiamo due enormi debolezze, che da sole risucchiano qualsiasi merito nell’amministrazione dei bilanci: a. un debito pubblico troppo alto; b. lo sprofondare in recessione mentre gli altri già si ripigliano. Su questi fronti c’è il vero pericolo, anche perché se l’economia non cresce il debito non è sostenibile. Da qui le degradazioni già subite e quelle in arrivo, che lo rendono ancora più caro, quindi sempre meno sostenibile. Agli italiani si dovrebbe spiegare in che consiste il problema, in modo da avere il consenso per affrontarlo. Invece si cincischia su iva e imu, che sono bruscolini. Persi, per giunta.

Negli anni della crisi il nostro debito pubblico è cresciuto assai meno di quello di altri. Ma questo dato racconta solo un aspetto del problema. Se una famiglia s’indebita, ma con quei soldi compra casa, o la ristruttura, o compera cose utili, da una parte rinuncia a ricchezza futura, ma dall’altra ne acquisisce subito più di quanta potrebbe permettersene. Va bene. Il dramma del nostro debito è che cresce senza contropartita. Cresce alimentando sé stesso. Il deficit lo facciamo con il debito. Per non finire stritolati si devono fare due cose: abbatterlo con delle dismissioni e aumentare la produttività. La prima cosa significa: vendere. Se i debiti di una famiglia superano la capacità di reggerli, se per pagare gli interessi si rinuncia a mangiare è ora di vendere gli orecchini della nonna. E in fretta, prima che servano a pagare interessi.

La seconda cosa significa diminuire il costo del lavoro, il che, ancora, vuol dire bloccare i salari e tagliare il cuneo fiscale. Significa far scendere le pretese del fisco, cosa che possiamo permetterci solo riducendo la spesa corrente, quindi le dimensioni dello Stato. Fa paura sentirlo? Fa assai più paura non farlo, perché poi paghi senza avere nulla in cambio. Produttività significa avere la pubblica amministrazione interamente digitalizzata, risparmiando sui costi; la giustizia amministrata in tempi certi, e chi se ne frega delle proteste di avvocati e magistrati; poche regole per l’impresa; pochi vincoli burocratici; una scuola selettiva; la riorganizzazione degli enti locali e lo smantellamento del nuovo (micidiale) titolo quinto della Costituzione. Tutti dolori e sacrifici? Ma quando mai: sono piaceri e liberazioni. Se facessimo queste cose potremmo anche ricordare che la Germania le fece (meritoriamente) in deficit. Per cui quel chiodo va rimosso, come fu rimosso per altri, cui noi non siamo inferiori. Ma se non ci sbrighiamo, se restiamo immobili, si apre la botola e il cappio si stringe. Con o senza il contributo dello spread.

Pubblicato da Il Tempo

Nessun commento: