mercoledì 18 dicembre 2013

Si può riformare la giustizia senza subire minacce dall’Anm?

 
Si può riformare la giustizia senza subire minacce di rappresaglia dai magistrati e dal loro sindacato, l’Anm? Pare di no. Almeno secondo Marco Boato, ex membro delle commissioni bicamerali degli anni ’90, che all’incontro “Giustizia? Esperienze a confronto per una riforma” organizzato da Tempi, Panorama e Radio Radicale ha ricordato come nella commissione De Mita del 1993-1994 e nella commissione D’Alema, il sindacato dei magistrati (Anm) sia sempre riuscito a bloccare ogni tentativo di riformare la giustizia.
 
INTIMIDAZIONI VIA FAX. Già nella bicamerale del 1994, da cui il presidente Ciriaco De Mita sarebbe stato costretto a dimettersi per un'indagine sul fratello, la politica aveva prodotto un documento su un’ipotetica riforma. E proprio «mentre si stava discutendo di un’ipotesi vaghissima di separazione delle carriere», ha detto Boato, «arrivò in piena commissione e fu distribuito a tutti noi membri un volantino inviato via fax e intestato all’Anm, che ci intimava di non affrontare la riforma della giustizia in bicamerale. Il volantino era stato sottoscritto da decine di magistrati e inviato alle procure di Milano e di Torino e ad altri uffici giudiziari».
 
I magistrati intimavano al Parlamento di rinunciare a una bozza di riforma in cui «nemmeno era stata usata l’espressione “separazione delle carriere” e dove ci si limitava a chiedere una riflessione sullo status del pubblico ministero». «Quando è finita la legislatura, la commissione ha depositato le relazioni sulla forma di Stato e di governo», ha continuato Boato. E la riforma sulla giustizia? «Nulla, neanche una parola. Il tema “giustizia” sparì dai lavori della commissione il giorno in cui comparve quel fax».
 
BICAMERALE D’ALEMA AFFOSSATA. Nella successiva commissione bicamerale D’Alema (1997), Boato fu relatore del disegno di riforma del sistema delle garanzie costituzionali. «Nel gennaio del 1998 iniziò l’esame della bozza alla Camera. Tre giorni dopo, il sindacato dei magistrati organizzò il proprio congresso, che si tenne nel salone della corte di Cassazione. Partecipò anche il presidente della Repubblica, Oscar Luigi Scalfaro». «Quella era la prima volta in cui un Capo dello Stato si recava al congresso di un sindacato», ha ricordato Boato. «In quell’occasione, Scalfaro prese la parola per condividere le sparate alzo zero del presidente dell’Anm, Elena Paciotti, che si scagliò contro la proposta di riforma costituzionale della giustizia».
 
Si lamentarono, incuranti del fatto che la bozza Boato, come oggi è chiamata, fosse stata «approvata all’unanimità dall’intera commissione eccettuata Rifondazione Comunista». Secondo Boato, da quel giorno, screditata da Scalfaro e dal sindacato dei giudici, «la bicamerale D’Alema iniziò a morire».
 
DISASTRO TANGENTOPOLI. «Il rapporto fra politica e magistratura è un tema che si trascina non da vent’anni ma dall’immediato dopoguerra», ha proseguito Boato. «Nei primi atti dell’assemblea Costituente del 1947 si può trovare una stigmatizzazione di Piero Calamandrei nei confronti del procuratore generale della Cassazione perché aveva attaccato l’organo che doveva provvedere all’approvazione della Costituzione». Già allora i magistrati mettevano becco in affari che non li riguardavano.
 
Però, i veri problemi iniziarono «dalla metà degli anni ’70 agli anni ’90», quando per risolvere «tre emergenze vere, cioè mafia, terrorismo e Tangentopoli, la politica rispose con atti emergenziali, delegando una fetta delle proprie responsabilità alla magistratura». Questa delega, conclude Boato, «implementò il potere dei magistrati oltre ogni misura, tanto che oggi non solo esercita ancora quel potere di supplenza che gli è stato affidato dalla politica, ma una parte ne oltrepassa i limiti per protagonismo».
 
(Tempi)
 
 

1 commento:

Anonimo ha detto...

l'unica riforma della giustizia possibile è mettere al gabbio tutti i politici e i loro fiancheggiatori:meno politici più libertà