venerdì 3 gennaio 2014

Mangiano i bambini? Marco F. Cavallotti


Ormai rischiano di rimanere in pochi coloro che sanno qual era il clima nelle case di Budapest, di Varsavia, di Bucarest e di Mosca nel glorioso periodo sovietico, con i cuscini che coprivano il telefono nella illusione che così non si potessero intercettare le conversazioni domestiche, con i vicini d'ufficio che inscenavano ogni giorno una nuova puntata della “Vita degli altri”, fra delazioni e rapporti ai superiori su ogni episodio “sospetto”. Nessuno sa più come erano le code all'alba per il litro di latte, le lunghe colonne di passanti che si creavano alla sola vista di un principio di allineamento, perché là in fondo forse c'era qualcosa di acquistabile; nessuno ricorda come tutto funzionava a rilento ed alla meno peggio, perché per un servizio vero bisognava pagare a parte un compenso vero.

Nessuno sa più che cosa fosse quella sensazione di disagio e di vuoto allo stomaco che ti prendeva quando vedevi il tuo passaporto scorrere lungo lo scassatissimo tapis roulant ricoperto di plastica opacizzata e sporca sotto la pioggia oltre la interminabile coda di auto in attesa, verso la sbarra della polizia di frontiera, presso i grandi passaggi fra Est ed Ovest, a Görlitz, appunto, o a Berlino, o agli aeroporti fatiscenti di quelle capitali. Nessuno ha nemmeno la più pallida idea della sensazione che provavi accorgendoti di essere oggetto permanente di sorveglianza e di delazione in albergo, nella caffetteria fra amici, nelle strade grige e nei negozi. Nessuno ricorda le ragazze che si regalavano per un paio di collant all'occidentale, le cose “impossibili” ottenute per un pacchetto di Kent, il cambio nero, il valore astronomico in valuta locale di un paio di jeans...

Quasi nessuno ricorda più nulla, e del resto anche allora, quando malgrado tutto un po' di turismo e un po' di viaggi di affari facevano circolare qualcuno di noi oltre il muro, ben pochi osavano parlarne con la giusta chiarezza: del resto – interveniva subito il tuo interlocutore – non era simile o peggiore la situazione di Matera, della Sicilia, e in fondo non era quella una strada dolorosa ma necessaria verso una “giustizia superiore”? Ma poi arrivavano i membri delle delegazioni ufficiali, con le valigie piene di caviale, di ambra e di icone, vezzeggiati e fatti viaggiare da un villaggio Potëmkin all'altro nel grande scenario delle realizzazioni del regime, e ci tranquillizzavano: là tutto va bene, quello che non va è solo propaganda, le rivolte che scoppiano di quando in quando sono solo rigurgiti di una borghesia ormai vinta e in via di scomparsa. Chi vuol ricordare quello che ci si diceva può rileggersi, ad esempio, il discorso di Giorgio Napolitano sulla repressione in Ungheria... ma gli esempi sono moltissimi: basterebbe mettersi a cercarli, farli conoscere superando le resistenze di media e studiosi allineati, non cedere alla pigrizia ed all'acquiescenza, non aver paura di trovarsi in una posizione scomoda di fronte ad amici e colleghi che si sono accomodati da anni nella confortevole posizione di utile idiota, di nesci per opportunità, o peggio di complice di una colossale rincorsa al silenzio.

Ma non sono tutti così, per fortuna non tutti non possono più parlare, e qualcuno ancora in grado di mettere la testa fuori da questa nuvola di confortevoli menzogne rimane.

Forse per questo, ancora oggi, mentre molti dicono con un sorriso di compatimento che il comunismo non esiste più, il vecchio lavoro – una versione “reale” e “concreta” del gramscismo – di aggiustamento con il passato per non farci i conti continua a scavarci sotto i piedi: e mentre gli archivi si aprono, e affiorano ad ogni angolo le testimonianze scomode – malgrado tutto e malgrado l'incapacità di chi potrebbe averci un ruolo determinante, come certi amici di Putin che non sanno chiedere e usare le carte giuste –, l'accorgimento più opportuno, come sempre, sta nel lavare i panni sporchi in famiglia. O meglio, nell'affrontare il problema in modo tale da non toccarne il cuore velenoso, in modo tale da non far danno al presente evitando di scoprire troppo apertamente gli errori e gli orrori del passato. È così che incontriamo spesso molti “esperti” di storia e di politica del XX secolo in Unione sovietica e nei Paesi satelliti che, magari grazie ad antiche colleganze locali, si accaparrano documenti e temi di ricerca “scomodi”, per darne una interpretazione in qualche modo funzionale alla sopravvivenza degli eredi di quei biechi e terribili protagonisti.

Da ultimo un libretto dal titolo un po' renzianamente spiritoso (“I comunisti mangiano i bambini” di Stefano Pivato) sembra scherzare coi fanti – anche letteralmente –: ma pur riconoscendo che l'antropofagia e la vendita dei bambini negli anni successivi alla rivoluzione russa fu tutt'altro che un'invenzione, fa di questa terribile accusa una sorta di ridicolo refrain, caro ai democristiani di allora, ancora fieramente anticomunisti: un refrain che finisce per essere additato come esempio della fantasiosità e sulla ingiustizia delle accuse al mondo comunista. E così un intero capitolo fondamentale della storia dei rapporti fra due opposte propagande – un tema centralissimo e essenziale – è sistemato, nel solito modo.

Anche da questo punto di vista sarebbe utile per tutti noi una rilettura dell'assai illuminante volume di Robert Conquest, Il secolo delle idee assassine: un libro che, malgrado i numerosi sforzi per tacerne l'esistenza e per impedirne la traduzione in italiano, resta davvero indispensabile per comprendere un aspetto fondamentale della storia e dei miti – veri e falsi – di quel secolo. Il quale per molti aspetti, contrariamente a quanto si ripete tanto spesso, è purtroppo davvero “duro a finire”.

(LSBlog)

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