mercoledì 22 gennaio 2014

Titolo quinto, il raggiro ha vinto. Davide Giacalone


Meritoriamente il segretario del Partito democratico, Matteo Renzi, insiste sulla necessità di cancellare la pessima riforma del Titolo quinto della Costituzione, che ha distrutto lo Stato unitario e fatto crescere a dismisura la conflittualità innanzi alla Corte costituzionale e il mostro della spesa regionale. Bravo. Però si vorrebbe sentire una parola chiara sulla colpa di ciò. Ieri, in direzione, ha detto: “abbiamo sbagliato”. Verissimo. Ma “noi” chi? Ha sbagliato la sinistra. Perché c’è chi, come noi, puntò l’indice contro l’obbrobrio nel mentre il Parlamento lo votava, e chi, come la sinistra, non solo lo volle, ma poi lo difese, impedendo che fosse posto rimedio. La memoria è necessaria, altrimenti va a finire che con il Titolo quinto il raggiro ha vinto.

La riforma incriminata risale al 2001. Governava Giuliano Amato (oggi giudice costituzionale), con una maggioranza di sinistra. A volere la riforma fu il più grosso partito della sinistra, che allora si chiamava Ds, Democratici di sinistra. Da quelle parti, ancora oggi, si sostengono due cose: a. che la nostra è la più bella Costituzione del mondo; b. che non va mai modificata “a colpi di maggioranza”. Invece la scassarono con uno scarto infinitesimale e con una maggioranza coincidente (ma minore) con quella del governo, che era consenziente. La ragione di tale porcheria era la voglia di sembrare più federalisti della Lega, così tentando di portarle via voti (era l’era in cui Massimo D’Alema considerava i leghisti “una costola della sinistra” e partecipava al loro congresso nazionale). Le elezioni le persero ugualmente. Noi perdemmo l’unità dello Stato. Ma questo è solo il primo passo.

Il 7 ottobre del 2001 si tenne il referendum confermativo. Il centro destra ebbe la grave colpa di sottrarsi alla campagna referendaria. Il risultato fu: votò solo il 34% degli aventi diritto (ma i referendum confermativi non hanno quorum, quindi sono comunque validi), di cui il 64% a favore della riforma. Siccome questa fece subito vedere i suoi effetti devastanti, già nel 2005 (18 novembre) era stata cancellata. Molti tendono a dimenticare, ma in quell’occasione, con una maggioranza comprendente la Lega (governava Silvio Berlusconi), fu reintrodotto nella Costituzione il principio di “interesse nazionale”. Per me era ancora poco, ma rispetto al disastro del 2001 era già molto. Peccato che la sinistra scatenò l’inferno, talché i suoi parlamentari chiesero il referendum confermativo, unitamente a 5 consigli regionali e dopo avere raccolto 150.000 firme. La loro riforma, quella che oggi Renzi vuol demolire, la difesero con le unghie e con i denti. Così si arriva al giugno del 2006 (governante Romano Prodi), quando il referendum confermativo dà il seguente risultato: votò il 52% e chiese la cancellazione dell’interesse nazionale il 61%. L’anno successivo, sempre restando al governo, chiusero i battenti i Ds e nacque il Pd.

Da quando è stata approvata quella riforma-sgorbio, qui non si fa che ripeterne l’estrema negatività. Nel 2006, con Libero, pubblicammo anche un libro, nel quale era contenuto un mio pezzo le cui tesi si ritrovano, pari pari, fra le cose che oggi dice Renzi. Nessuno chiede a lui, personalmente, di fare autocritica per un erroraccio in malafede, cui non prese in nessun modo parte, ma posto che fu opera del suo partito, benché diversamente nominato (sono sempre gli stessi !), e posto che oggi sostiene quel che noi abbiamo sostenuto per anni, sarebbe onesto riconoscerlo, stabilendo che non siamo affatto tutti uguali: c’è chi ragionò dell’interesse nazionale e chi operò solo per interesse di parte e di contrapposizione politica, procurando danni enormi all’Italia.

Non è a noi, pertanto, che si deve spiegare quanto sia giusto riformare la riformaccia, ma questo non cancella un problema: per farlo occorre tempo (doppia lettura parlamentare, circa un anno) e quel tempo ci porta dritti nella zona in cui non si potrà più votare; non è che la fregola delle urne ci appassioni, ma è pur sempre meglio del tirare a crepare, nel mentre i problemi crescono per i fatti loro; quindi, giusto per non farla sembrare una scusa, quella delle riforme costituzionali (cancellazione del Senato compresa), sarà bene partire dalla riforma del sistema elettorale. E’ ordinaria e può essere discussa subito. Se la sintonia, fra gli odierni Pd e Forza Italia, regge, bene, molto bene: avanti con le riforme. Se non regge, meglio saperlo subito.

Pubblicato da Libero

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