giovedì 25 settembre 2014

Il 25 per cento del Pd spiegato a Bersani (se serve anche con i disegnini). Claudio Cerasa



Il Foglio - Prima o poi qualcuno dovrà spiegare a Pier Luigi Bersani che non ci fa una grande figura a dire a Matteo Renzi ehi bimbo, devi portare rispetto alla vecchia ditta perché se tu fai tanto il ganzo in America con Bill Clinton e gli amici suoi il merito è del mio 25 per cento che ho conquistato lo scorso anno e senza il quale oggi non saresti a Palazzo Chigi con i tuoi amici toscani.
Senza volerci dilungare troppo qualcuno che vuole bene a Bersani dovrebbe spiegare all’ex segretario che rivendicare con orgoglio di aver preso il 25 per cento alle ultime politiche, 8,6 milioni di voti ottenuti, 4 milioni di voti persi rispetto al 2008, circa lo stesso numero di elettori raccolti dal Pds nel 1996 (7 milioni e 800 mila), 3 milioni di elettori in meno rispetto a quelli conquistati un anno dopo dal suo successore alla guida del Pd alle europee, fare tutto questo significa non aver capito quasi nulla su ciò che è successo, a sinistra, il 25 febbraio del 2013.

Proviamo a riepilogarlo: il capo di una coalizione che avrebbe dovuto stravincere le elezioni smacchiando senza difficoltà il giaguaro è riuscito nella non facile impresa di far arrivare il principale partito della sinistra al livello più basso della sua storia recente (peggior risultato dal 1963), regalando un’autostrada a un partito guidato da un buffone travestito da giustiziere e costringendo il suo partito, che avrebbe dovuto vincere agevolmente le elezioni, ad allearsi con lo stesso giaguaro che avrebbe dovuto essere smacchiato. Verrebbe da sorridere se la questione non fosse invece terribilmente seria. Non c’è nulla di peggio, per un leader come Renzi che tende ad accentrare il potere decisionale delle sue politiche di governo, che avere a fianco dei leader di minoranza interna che non capiscono che il modo migliore per ripetere il capolavoro del 25 febbraio è quello di non prendere coscienza di un fatto elementare che potremmo sintetizzare utilizzando poche parole: alle ultime elezioni abbiamo ottenuto più voti rispetto ai nostri avversari ma ne abbiamo ottenuti così tanti in meno rispetto a quelli che avremo dovuto ottenere (per via della nostra clamorosa mancanza di identità e per via della nostra propensione a delegare a qualcuno esterno al partito il compito di rappresentare i vari strati della società) che l’unico modo corretto per ricordare quell’esperienza elettorale è inquadrarla sotto un’unica voce: un fallimento.

Nel dibattito finora molto ideologico sulla riforma del lavoro bisogna dire che la parte più sindacalizzata del vecchio Pd a vocazione bersaniana sta mostrando di non aver capito la lezione del 25 febbraio: accusare il segretario del Pd di essere un inguaribile liberista, “di destra”, che non ha altro interesse se non quello di umiliare i sindacati è un discorso che si tiene solo ragionando con vecchie e arrugginite categorie del passato – quelle di chi per molto tempo ha pensato che per la sinistra la parola “lavoro” dovesse coincidere necessariamente con la parola “sindacato” (in questo senso chiedete per credere a Pier Luigi Bersani quanti sono i sindacalisti ex Cgil che ha scelto di piazzare in commissione lavoro nel momento in cui è nata la legislatura – vi diamo un aiuto: 11 su 24). Ed è un discorso, poi, che mostra tutti i limiti di una sinistra incatenata che prova – disperatamente – a cercare un nuovo collante culturale senza però trovare niente di meglio da fare che utilizzare una formula che non ha mai portato bene ai progressisti: dipingere il proprio avversario come se fosse un nemico giurato o, peggio, un inguaribile corpo estraneo, ovviamente da eliminare al più presto. Difficilmente la minoranza del Pd riuscirà a ottenere qualcosa da Renzi sul dossier della riforma del lavoro (il 29 settembre la direzione del Pd voterà a favore della proposta del governo, poi il testo andrà in Aula e non saranno molti i parlamentari democratici disposti ad andare contro il voto della direzione del partito) ma la partita sul Jobs act, più che sui contenuti relativi ai provvedimenti parlamentari, per la minoranza del Pd sarà utile da seguire per capire come si andrà a strutturare l’alternativa al renzismo nel Pd.

Le strade sono due: costruire una sinistra a vocazione non vendoliana e alternativa al grillismo capace di considerare il 25 per cento come il punto più basso della propria storia politica, o andare all’inseguimento di Renzi scopiazzando le idee di Grillo e Rodotà. Dire che la sinistra che ha perso le primarie non deve in nessun modo pensare di influenzare l’agenda a chi le ha vinte è un po’ da arroganti. Dire invece che la sinistra che ha perso le elezioni non deve avere la spocchia di fischiettare di fronte ai 4 milioni di voti persi un anno e mezzo fa è invece il modo migliore per permettere alla stessa sinistra di avere un proprio futuro: anche a prescindere poi da quale sarà il destino di Renzi e dei suoi amici toscani.

(LSBlog)

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