lunedì 27 ottobre 2014

Il diluvio. Marco Cavallotti

 
 
Sugli eredi del Pci sembra essersi riversato il diluvio universale. Ormai da molti lustri essi erano stati affiancati da pattuglie sempre più vivaci di reduci della Dc e della sinistra cattolica, con i quali avevano dovuto condividere, un po' artatamente, la visione del mondo. Ma ora l'onda di piena costituita da una nuova generazione che è profondamente estranea ai rituali, ai vezzi ed ai luoghi comuni della vecchia “ditta” – per usare un'espressione infelice del buon Bersani – li supera tutti, ignorandone le differenze, scorrendo loro intorno rovinosa e inarrestabile, lasciandone i resti abbarbicati alla tradizione come i vecchi alberi che spuntano, sulla loro isoletta sempre più piccola, in mezzo al fiume in piena.
 
Postcomunisti e cattocomunisti frastornati e balbettanti faticano a comprendere l'improvvisa inattualità delle loro reazioni, la nonchalance dei loro interlocutori di fronte a considerazioni pensose e aggrottate – che solo qualche mese fa avrebbero provocato un arresto dell'attività del governo, la caduta di un ministro, la pubblicazione di preoccupati editoriali –; e si coprono quasi di ridicolo avvolgendosi in un dignitoso bozzolo di incomprensibilità e di incomunicabilità per il grosso pubblico. Le loro parole d'ordine, le reazioni a comando, le manipolazioni retoriche un tempo infallibili hanno perso tutta o quasi la loro efficacia.
 
Sic transit gloria mundi, e così politici che potevano, solo qualche mese fa, apparire alla platea delle pasionarie come desiderabili e quasi mitici modelli di “uomo di sinistra”, un po' intellettualmente estenuati, un po' intelligenti, un po' civili ma inflessibili nelle loro convinzioni sociali, si riducono a balbettare risposte abborracciate, a risfoderare un inventario di luoghi comuni obsoleti – spesso causa storica di tanti guai per il nostro paese –, a capitolare miseramente di fronte alla folla dei giornalisti fattisi audaci e certi di poter dire e chiedere tutto, finalmente. Magari anche aspirando alla medaglia della originalità.
 
Si potrebbe dire che una cultura che per decenni, costruita a pezzo a pezzo e giorno per giorno da mille intellettuali organici, che ha formato l'ossatura del pensare comune nelle scuole, negli uffici pubblici, nelle mille realtà costruite per incuneare “elementi di socialismo” in una società già di per sé storicamente propensa ad una visione del mondo non liberale, in poco tempo abbia mostrato con imbarazzante evidenza la sua fumosa inconsistenza, la sua inattualità rispetto ai problemi del mondo d'oggi, i guasti provocati, e soprattutto la sua incapacità di mantenere quelle promesse palingenetiche che tanto a lungo avevano riscaldato i cuori dei militanti.
 
Merito di Berlusconi, che – pagando anche di persona – ha aperto la via, e di Renzi, che sta tentando spericolatamente di trasformarla in una autostrada a quattro corsie. Le stesse grandi strutture economiche “parallele” – banche e imprese cooperative, un tempo salvadanaio e bancomat di tutte le amministrazioni “democratiche” – mostrano impudiche i loro piedi d'argilla, con paurosi crolli in borsa. E sono coinvolti perfino santuari un tempo intoccabili, che solo pochi mesi or sono nessuno immaginava che sarebbero stati abbandonati al loro destino dal partito. Nel quale – questa in fondo è la prova più “vera” e più certa – gli equilibri, le prospettive e i gruppi di riferimento con Renzi sembrano davvero cambiati.
 
Non è evidentemente insensato immaginare che sia l'intero sistema politico nazionale a dover fare i conti con se stesso e con il proprio passato, per immaginarsi un futuro più rispondente alla realtà ed ai tempi d'oggi, rivoluzionato dalla globalizzazione.
 
Destra e sinistra, come specchiandosi, sono entrate in una fase nuova, in cui si ripensano, o meglio, dovrebbero ripensarsi. E senza dubbio, in questa prospettive, si pongono i problemi delle “radici”, di ciò che è vitale del proprio passato e di ciò che costituisce solo una zavorra, o addirittura un elemento incompatibile di contrasto. Immaginare che le “radici” sane della sinistra italiana – anzi, le uniche veramente legittime – possano essere ancora una volta costituite dalla mitologia resistenziale, con le sue mezze verità, con i suoi silenzi, con le sue iperboli, con la sua divisività procrastinata nei decenni, ovvero – per dirla sinteticamente con Galli Della Loggia – pensare che a innervare il futuro possa essere «la memoria di papà Cervi», con tutto il rispetto dovuto a quella tragedia familiare, significa aver capito poco del passato, e nulla del futuro. Significa illudersi, con non poca spocchia, che passata la nottata si possano riprendere i modi usati, i soliti rapporti, gli schemi consolidati in decenni di egemonia consociativa. Tutto da capo, ignorando che i personaggi in scena da decenni, nel frattempo, sono diventati mummie. Serve certo “avere una storia”. Ma una “scelta” delle radici che prescinda da un serio esame critico sugli errori e sui guasti del passato – di una vicenda che ha finito per assegnare all'Italia un destino tristemente eccentrico ed eccezionale rispetto a gran parte del resto d'Europa – sarebbe un errore fatale, che finirebbe anche per determinare una analoga confusione fra passato e presente sul fronte opposto. Allora è molto meglio non averne – di storia –, o averne, come Berlusconi, una meno tragica – se non sul piano personale.
 
(LSBlog)
 
 

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