venerdì 3 luglio 2015

Diritto sequestrato. Davide Giacalone

 



Sul buco di Monfalcone non può essere messa la toppa di un decreto legge. Anche perché, sommato al buco di Taranto, è troppo grosso. Il problema che si pone non è isolato e momentaneo, ma generale e ripetuto. Anzi, si tratta di tre ordini di problemi: a. le misure cautelari al posto delle pene, l’indagine al posto del giudizio, quindi l’assenza di proporzione fra il reato presupposto e la punizione eventuale; b. l’insensatezza di consentire all’accusa di ricorrere sempre e comunque; c. l’assenza di responsabilità. E non se ne esce con un decreto legge.
Lasciamo perdere che Fincantieri è un pezzo prezioso e irrinunciabile del nostro essere la seconda potenza manifatturiera d’Europa, nonché uno dei settori, la cantieristica, che più traina quel poco che c’è di ripresa economica. Facciamo finta che non sia decisivo (e lo è), perché non è di questo che si occupa la magistratura. Osserviamo quel che è accaduto a Monfalcone: un’indagine iniziata nel 2013, con la misura cautelare presa due anni dopo. L’urgenza, come dire, mi pare contraddetta dal calendario. La questione riguarda il trattamento di rifiuti. Non si tratta di roba che avvelena, non siamo alla terra dei fuochi, qui la faccenda è di carta: Fincantieri accatasta rifiuti anche per conto delle ditte che lavorano in appalto, ma, dicono alla procura, ci vuole l’autorizzazione. E’ così? non lo è? Non lo so, ma penso che per accertarlo, posto che stiamo parlando di roba che non inquina, si possa e si debba farlo in giudizio. Applicare il sequestro, quindi provocare la chiusura dello stabilimento, significa affibbiare una misura cautelare che supera in durezza anche la più micidiale delle condanne possibili. Ammesso e non concesso che gli imputati siano colpevoli, per mancata autorizzazione bollata a far quello che, comunque, tutti possono vedere.
Tanto la cosa è fuori dalla logica che sia il gip quanto l’appello rifiutarono alla procura il sequestro. Ma l’accusa ricorre sempre. Spesso si sente dire che la giustizia non funziona anche perché gli avvocati fanno ostruzionismo, ricorrono per principio, facendo perdere tempo. Ma, almeno, lo fanno a spese del cliente. La procura lo fa a spese nostre. Che senso ha ricorrere per due anni? Se credi che le accuse siano fondate, già dopo il primo rifiuto molli la presa sulla misura cautelare e punti al giudizio, per avere le condanne. Invece ci si comporta come se il solo processo credibile sia il non processo della fase preliminare. Quello, oltre tutto, in cui l’accusato ha meno strumenti per difendersi. Questa stortura non la si corregge intervenendo sulle conseguenza, ma sulle cause.
La prima (esagerazione della non pena) e la seconda (ricorrere a oltranza) cosa sono possibili perché nessuno risponde di quel che fa. Se la carriera del magistrato fosse legata alla sua capacità (nel caso della procura) di accusare chi sarà condannato, probabilmente si eviterebbe di sostenere accuse in modo temerario. Se si dovesse rispondere del fatto che una misura cautelare chiesta si rivelerà sproporzionata rispetto alla pena poi stabilità, o, addirittura, all’assoluzione, probabilmente si sarebbe più cauti. Ma nulla di tutto questo: la procura chiede sempre tutto e lo chiede ricorrendo in ogni sede. Se va bene, bene, e se va male che problema c’è? Anzi, dimostra che la giustizia funziona. Eccome.
Seguiamo la logica del sequestro: siccome credo che tu abbia violato la legge, prima ancora di dimostrarlo fermo la tua attività. Con un sistema di questo tipo fare industria è impossibile. Ma c’è di più: è impossibile fare qualsiasi cosa. Anche giustizia. In modo analogo, infatti, si potrebbe dire: siccome quel tribunale ha sbagliato, difatti la sentenza è stata riformata, siccome quella procura ha sbagliato, difatti la richiesta è stata rigettata, per impedire danni più grossi li sequestriamo e chiudiamo. Manca l’autorizzazione? Chiudo lo stabilimento. L’accusa si rileva infondata? Chiudo la procura. Vi pare folle? Lo è.
Pubblicato da Libero
 
 

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