venerdì 7 agosto 2015

C'è un ministro a Berlino. Davide Giacalone

Il governo rimuove un procuratore generale della Repubblica perché non ha più fiducia in lui. Attentato alla giustizia? No, è così che funziona la giustizia, dove la giustizia funziona. Siccome il procuratore in questione (Harald Range) aveva criticato la prudenza del governo nel vedere perseguire due giornalisti e aveva avvertito che: “influenzare le indagini perché il possibile esito non appare opportuno è un attentato intollerabile all’indipendenza della giustizia”, è intervenuto il ministro della giustizia (Heiko Mass) e lo ha mandato via. In Germania, come in Francia, come in qualsiasi altro Stato di diritto, l’indipendenza assoluta è una prerogativa dei giudici, non delle procure. Provate a tradurlo in italiano, se ci riuscite.
Nel prendere tale decisione, naturalmente, il ministro tedesco si assume una responsabilità politica. Anche se, in questo caso, somiglia di più a un merito, visto che l’idea di perseguire dei giornalisti, accusandoli di alto tradimento, per avere rilevato piani riservati destinati al monitoraggio del web, non per avere scritto il falso (nel qual caso è giusto ne rispondano), aveva suscitato vivaci reazioni e proteste. Il governo, inoltre, non archivia l’inchiesta, come può fare quello francese, ma nomina un altro procuratore, in cui ripone fiducia. Nulla di tutto questo, ovviamente, sarebbe stato possibile nel caso di un giudice, ovvero di chi è incaricato non di accusare, ma di stabilire se l’accusa è fondata o meno, se il cittadino è colpevole o innocente. Il giudice è protetto, nella sua indipendenza, ovunque lo Stato di diritto non sia una battuta di spirito. Figurarsi poi a Berlino, dove un giudice onesto e indipendente lo trovò anche il celebre mugnaio. Il guaio, in Italia, è che si fa una gran confusione fra giudici e magistrati, posto che i procuratori non sono giudici, mentre i giudici sono magistrati. Sano e lineare è il sistema in cui non sono neanche colleghi, ma, pur permanendo questa mefitica anomalia, comunque non sono la stessa cosa.
Fuori dall’intoccabile indipendenza dei giudici (che, comunque, non sono irresponsabili e la cui qualità del lavoro viene controllata, almeno dove lo Stato non è un agglomerato di corporazioni e prepotenze), le procure rappresentano la pretesa punitiva dello Stato, pertanto è considerato normale che rispondano del loro operato a chi governa, in ragione del consenso popolare raccolto. Certo che una condizione di questo tipo può prestarsi ad abusi, o indurre a proteggere amici e sodali, solo che poi se ne risponde davanti agli elettori. Ammesso e non concesso che si riesca a restare al governo. Perché dove la giustizia funziona è ovvio che i procuratori non sono giudici, ma è anche ovvio che proteggere politici amici, o direttamente sé stessi, dalle inchieste equivale a mettersi fuori dal consesso civile. Se non ti dimetti al volo vieni dimesso a furor di popolo. E mentre il citato furore è una bestemmia in un’aula di giustizia, è poesia in quelle parlamentari.
L’avere deragliato, uscendo dai binari dritti del diritto, comporta distorsioni pazzesche, destinate a rendere ancor più anomale le cose. Penso, ad esempio, ai cinque decreti legge che si sono fatti per cercare di rimediare agli effetti delle inchieste giudiziarie sullo stabilimento Ilva di Taranto. Cinque pezze colorate e inefficaci. Penso a un capo del governo che dice di non volere fare il passacarte delle procure, laddove la carta gli arrivava da un giudice. Penso a un ministro di giustizia che sbraca fuggendo la responsabilità politica, sperando di scaricarla sulla Corte costituzionale. A Berlino c’è un giudice, ma c’è anche un ministro. E non crediate che tale vantaggiosa presenza non si rifletta anche sui numeri dell’economia.
Pubblicato da Libero

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