venerdì 2 ottobre 2015

La retorica di Bella Ciao ho rotto i c... Francesco Maria Del Vigo

Pietro Ingrao per me non è un mito. Ne ho altri, finti, veri, cartacei. Ma non pretendo che siano universali. Non è un padre della Patria. Non può essere un padre della Patria uno che questa diavolo di Patria voleva svenderla a quella che sentiva la sua, di patria. Cioè la madre Russia comunista. Ma è possibile che qui ci si debba dividere tutti tra russi e americani? Ma uno che fa il tifo per l’Italia non è un’opzione disponibile? (Non la nazionale, per carità, di quelli ce ne sono troppi).
Ingrao, per me, non è un esempio. È uno che dalle colonne dell’Unità difendeva gli eccidi delle truppe russe in Ungheria e che oggi, dagli stessi che si genuflettono davanti al suo cadavere, sarebbe stato licenziato come un sovversivo criminale. Ma lui rappresenta i vincitori, anche adesso che è stato vinto dalla vita, come succede e succederà a tutti noi. Pietro Ingrao, per me, è un vecchio morto a cento anni, davanti al quale non posso che elevare un arrivederci ossequioso e laico. Perché amo gli anziani e ammiro i coerenti e gli idealisti. Anche di idee che non condivido. E invidio le comunità. Quella folla di pugni alzati, quelle bandiere rosse con la falce e il martello, quelle ugole che si squarciano intonando Bella Ciao. È roba d’altro tempo, di un’altra era. Archeologia politica e umana. Come quelle poltrone di modernariato che dici: cavolo che design strano. Ma a casa non le vorresti mai.
Ma facciamo una precisazione: evviva le comunità, evviva le idee. Ma Bella Ciao non è un inno nazionale. È un canto da ultras. Dell’antifascismo. Quella è una comunità che rispetto, ma non è una nazione. Non è di tutti, ma di parte. Divide e non unisce. Come direbbero i moderni: è divisiva. Il mito della resistenza non è realtà, ma finzione. Se va bene fiaba. È il Babbo Natale della sinistra. Shhh. Non diciamolo a voce alta che sennò poi ci sentono. Chè l’Italia l’hanno liberata gli americani. Bella Ciao non è pace, ma guerra. E pure civile. Che è il massimo dell’inciviltà. Basta. Basta con questo culto della resistenza, con questa religione laica della Liberazione. Pure il Papa apre ai divorziati, ma le vestali di piazzale Loreto non riescono nemmeno a parlare agli a-partigiani. Basta coi talebani del 25 aprile, con i santificatori del comunismo, con quelli che ci vogliono infilare in testa il burka del politicamente corretto. Con quelli che pensano che mettere la gente a testa in giù sia un atto di libertà.
Renzi, Grasso e Mattarella avrebbero chinato il capo davanti al feretro di Giorgio Almirante? No. Perché era un fascista. Redento. Democratico. Ma c’aveva sempre quel problema lì. Non parlo del peccato mortale di aver eletto Fini come proprio delfino. Ma di quella camicia non troppo intonata coi colori alla moda. Invece erano tutti lì, davanti alle falci e ai martelli. Immobili davanti a simboli di morte. Persino Fini era uscito dal sepolcro. E pure Marino. Ma quello si imbuca ovunque: dal Vescovo di Roma al patriarca dei bolscevichi, che differenza c’è?
Anche il comunista Ingrao avrebbe mandato a quel paese quella massa di sciacalli che cerca di vivere su una (presunta) rendita di posizione. Io vorrei mandare a quel paese Renzi, Grasso, la Boldrini, la religione (catto)comunista dei partigiani, le falci e il martello, il galateo del 25 aprile e Bella Ciao. Che, ripeto, non è Fratelli d’Italia, ma una canzone più secessionista della Lega di Bossi: spacca il paese, allarga la piaga e divide gli italiani. Ma, soprattutto, rompe i coglioni. È l’ora di dire ciao. Anche a Bella Ciao.

(il Giornale)


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